LAVORO DI GRUPPO "VITA DI DANTE" (definitivo)
"Vita di Dante" attraverso focus
Focus
1
Dante e lo stilnovismo
“Dolce stil novo”, come limpidamente suggeriscono i termini, è una
locuzione che fa riferimento a una novità e a una dolcezza dello stile. A
dispetto di questa chiarezza, ancor oggi si discute in sede critica su quale
possa essere stato il motivo per cui Dante e i suoi amici poeti abbiano scelto
questa denominazione specifica per indicare le loro poesie a contenuto amoroso,
successive a quelle dei poeti siciliani della corte di Federico II (1194-1250)
e a quelle della scuola toscana della seconda metà del XIII secolo, che ebbe in Guittone d’Arezzo
un suo principale esponente (1235-1290).
In effetti la novità stilnovistica fu
sia dottrinale sia stilistica e, quanto
a quest’ultima, consistette proprio nella dolcezza, che nel pensiero di Dante era
dolcezza di suono, da ottenere mediante la scelta accurata di vocaboli, la loro
semplice collocazione, il ripudio di suoni duri, di forme artificiose e
aggrovigliate, cioè il ripudio dello stile di Guittone d’Arezzo che, maestro
ammirato della precedente generazione, fu decisamente superato dagli
stilnovisti. Meno chiaro, invece, in che cosa consista propriamente la novità
contenutistica. Che la loro poesia tratti un amore diverso dal piacere sensuale
e che, in genere, rifugga da ogni rappresentazione realistica, è certo, ma ciò
non basta a distinguerli dai predecessori, i quali avevano cantato amori
ugualmente casti e, ancor più importante, avevano anch’essi considerato l’amore
come segno di elevazione spirituale e mezzo di ulteriore innalzamento. Per
riuscire a comprendere un po’ più a fondo la componente più caratteristica
dello stilnovismo dal punto di vista dottrinale, è necessario concentrarsi su
un’opera dantesca che rappresenta al contempo, ossimoricamente, il vertice e il
superamento dello stilnovismo. Si tratta della Vita nuova¸ in cui la definizione di donna angelo, sorta di porta verso la dimensione ultraterrena,
indispensabile per l’elevazione spirituale dell’uomo, viene proposta attraverso
l’azione congiunta di prosa e di poesia.
La Vita nuova è la prima opera compiuta di Dante e risale all’incirca
al 1292. È composta da rime, esattamente 25 sonetti, 5 canzoni e una ballata, intercalate
da prose che costituiscono in parte presentazioni, in parte commenti
delle rime medesime.
Il tema principale dell’opera è l’amore di Dante per Beatrice; vita nuova equivale, come si legge all’inizio,
a vita rinnovata dall’amore: si
comincia dal primo incontro tra il poeta
e Beatrice, che risale a quando Dante aveva 9 anni, per giungere a quello avvenuto
dopo altri 9 anni. La mistica numerica, rilevata dallo stesso poeta nel nel capitolo 29, è intrecciata al rapporto con
Beatrice e alla sua vita, con chiari riferimenti alla dimensione ultraterrena e
al piano divino. Non a caso anche la vicenda esistenziale di Beatrice risulta
scandita in tre parti: la prima, in cui emerse l’amore per lei, la seconda, in
cui si manifesta il presentimento della
morte della donna, e la terza che si apre dopo la sua dipartita. In seguito a
questo evento doloroso, Dante si ritrova in una situazione amorosa con un’altra
“gentile donna giovane e bella molto”, che aveva mostrato pietà per il suo
stato. In seguito, tuttavia, come si fosse trattato di uno sviamento momentaneo
(un ritrovarsi nella selva oscura) il
pensiero di Dante si concentra nuovamente sull’amore verso Beatrice. La
narrazione si conclude con una visione
ancora incerta e con l’intento dell’autore di non palare più di Beatrice finché
non fosse stato in grado di dirne quello
che mai non fue detto d’alcuna.
Nella concezione stilnovista la
donna-angelo trascende la femminilità per farsi espressione e veicolo delle
virtù divine: la bellezza che le viene
riconosciuta non è puramente estetica,
ma riflette armonia interiore e
gentilezza, da intendersi sempre in senso spirituale. A essere rivisto in senso
spirituale è anche il sentimento che viene tributato alla donna angelicata,
trasformandosi in poesia: il poeta che ne canta le lodi non si pone più nella
condizione di chiedere qualcosa, come poteva accadere nel contesto della poesia
cortese, ma di donare nella forma più generosa possibile, senza alcun
tornaconto e per il puro piacere di farlo, dopo essere stato ispirato da lei,
fonte di bene equiparabile, quindi, a quella che proviene dalle sfere celesti e
dalla divinità direttamente.
Luca, [Andrea C.], Camilla, Stefano, Lorenzo I.
Focus 2
Il De vulgari eloquentia
Dal 1303 al 1305 Dante si dedicò alla
stesura del De Vulgari Eloquentia, un’opera scritta in latino, volta a
rendere noti i frutti di una ricerca linguistica da lui condotta per stabilire
le caratteristiche del volgare, dopo averne ricostruito la genesi nel tempo e
le specificità geografiche.
Il tema centrale dell'opera è la
comunicatività della lingua volgare, l'eloquenza che le si può ormai
riconoscere: nel trattare la materia in maniera esaustiva ed
enciclopedica, Dante si propone di delineare le caratteristiche di un
volgare che definisce illustre, ovvero tale da assumere i caratteri di
lingua letteraria all'interno dell'ancor variegato panorama linguistico
italiano.
La decisione di scrivere questo trattato
di linguistica in latino, benché il contenuto fondamentale ne sia un convinto
tentativo di dimostrare come il volgare sia una lingua più che degna di
sostenere qualsiasi forma di comunicazione, risponde alla volontà di far
arrivare il messaggio agli intellettuali, in genere arroccati su una posizione
di difesa della lingua latina e di contrasto nei confronti del volgare.
Nel De vulgari eloquentia Dante classifica le lingue volgari in base
alla loro particella affermativa, definendo così, per esempio, la lingua
d’oil e la lingua d’oc diffuse in Francia, e la lingua
del sì, ovvero l’italiano, tutte derivate, per via di stratificazioni
connesse con eventi storici, dal latino.
All’inizio della trattazione inerente al volgare illustre, Dante paragona
quest’ultimo a una pantera, che diffonde in ogni luogo il suo profumo ma in
nessun luogo appare, e che egli, dopo averla fino a quel momento braccata per
tutta l’Italia, senza riuscire a catturarla, si propone ora d’irretire nei suoi
lacci attraverso un procedimento razionale, non più empirico, di ricerca: Dopo
che abbiamo cacciato le foreste e i pascoli d’Italia, e non abbiamo scoperto la
pantera che seguiamo, in modo che possiamo trovarla, possiamo investigarla più
razionalmente, così che con zelo esperto possiamo intrappolare completamente il
rosso mela colorata che appare ovunque e ovunque nelle nostre tende.
Considerato dagli studiosi il primo trattato di linguistica, è in effetti
un vero e proprio manuale per riconoscere la lingua italiana laddove si stava
formando e imponendo: quel volgare che egli riteneva (stabilendo così una
nomenclatura) illustre, cardinale, regale e curiale e che è di ogni
città italiana ma non sembra appartenere a nessuna e sulla cui base tutti i
volgari locali degli Italiani sono misurati, valutati e confrontati. Si
tratta in effetti di una definizione ancora oggi utilizzabile per definire la
nostra lingua.
Per dare un'idea almeno sommaria della geografia linguistica di cui
il trattato dantesco si occupa, all'inizio del 1300 in Italia esistevano 14
tipi di volgari diversi. Da questa varietà Dante però vuole arrivare a
delineare un volgare dominante, quello che definisce primariamente volgare
illustre, e che coincide sostanzialmente con la variante del volgare
fiorentino (in cui peraltro erano stati concepiti e redatti i componimenti
stilnovistici).
Tale volgare si
definisce dapprima teoricamente attraverso gli aggettivi
- cardinale, in quanto cardine, ovvero volgare al quale tutti gli altri volgari, o
dialetti, devono fare riferimento, facendosene sostanzialmente assimilare;
- aulico ossia degno di essere utilizzato per discorsi alti,
che si possano condurre nell'aula ovvero nella corte imperiale
(viene così a realizzarsi una saldatura fra due sogni danteschi:
quello di unificare la lingua e quello di unificare il potere);
- curiale ovvero parlato negli ambienti
del potere, la curia ovvero anticamente il senato, che
supportano l'imperatore, ad esempio i tribunali.
Alessandro Gi., Alessandro Ga., Tommaso,
Riccardo
Focus 3
Dalla
res publica romana al comune
fiorentino, la carriera politica sembra essere soggetta a almeno due
condizioni: l’appartenenza a determinati ceti (genericamente definibili come classi alte, in genere provviste anche
di un certo potere economico) e una riconosciuta (almeno fino a prova
contraria) moralità, variabile ovviamente a seconda dei contesti. Questa
premessa, nella sua genericità, è comunque necessaria per procedere con una
sommaria presentazione della vicenda politica dantesca, date le vicissitudini
nelle quali incorse il poeta che, dopo aver ricoperto cariche di rilievo, venne
bandito dalla sua città con pretestuose motivazioni.
Dobbiamo a Dino Compagni,politico, mercante e cronachista della vita fiorentina all’incirca contemporaneo di Dante (1246/47 –1324 le date di nascita e di morte di questo concittadino del poeta), la maggior parte delle notizie relative alla sua carriera politica in qualità di priore, di ambasciatore e infine di consigliere dei Cento. Dante, secondo Compagni, avrebbe tra l’altro cercato
di potenziare la milizia cittadina pagata con fondi pubblici, mettendo da parte il contributo delle armi private; si sarebbe impegnato a proteggere gli Ordinamenti di giustizia, che miravano a superare le faide ancora promosse dalle aristocrazie feudali; avrebbe favorito una più larga rappresentanza
politica, senza escludere nemmeno i ghibellini; infine, e forse questo sarebbe stato il principale motivo della sua rovina, avrebbe tentato di bloccare gli aiuti, soprattutto pecuniari, a Bonifacio VIII e di applicare le pene previste per quei banchieri fiorentini che, in buona sostanza, stavano svendendo la città al papa.
Entrando in qualche dettaglio relativo al cursus honorum dantesco, appena una
provvisione del 1295 consentì ai nobili, esclusi dal governo dagli Ordinamenti
di giustizia di Giano della Bella
del 1293, di partecipare alla vita pubblica mediante l’iscrizione a
un’Arte, Dante scelse d’iscriversi alla corporazione (in fiorentino appunto arte) dei Medici e Speziali, procedendo ovviamente a un mero adeguamento alle
disposizioni vigenti. Dal 1295 al 1302 ricoprì varî uffici; tra l’altro, dal
maggio al settembre 1296, appartenne al più importante dei consigli cittadini,
quello dei Cento, con l’incarico, derivante da indubitabili doti retoriche, di
far parte delle varie ambascerie inviate da Firenze in altre città.
Dal 15 giugno al 15 agosto 1300, fu tra i 7 priori di
Firenze, eletti col compito di opporsi
alle intromissioni nella vita pubblica di Firenze di papa Bonifacio VIII. Per
quanto appartenente alla fazione guelfa, in particolare a quella bianca che
annoverava nelle sue fila famiglie della media borghesia, a differenza della
fazione dei neri che aveva riunito le famiglie nobili, Dante non compì mai
scelte opportunistiche o faziose, ma questo non lo rese indenne da trame altrui,
soprattutto da quelle ordite da Bonifacio VIII, destinato a diventare, non solo
nella Divina commedia, il principale
rappresentante di una degenerazione dell’istituzione ecclesiastica con la quale
il poeta non cessò mai di confrontarsi, esprimendo giudizi critici ai limiti (e
qualche volta oltre i limiti) dell’invettiva.
Un ulteriore inasprimento della situazione interna a
Firenze si ebbe quando guelfi bianchi e neri iniziarono a scontrarsi
violentemente, così da legittimare l’intervento, desiderato e promosso
ovviamente da Bonifacio VIII, del cardinale
Matteo d’Acquasparta, in veste di
paciere, ma in realtà (come pensava Dante) incaricato di favorire l’ingerenza papale nel
ricco comune fiorentino.
Per ridimensionare il papa e il suo inviato, Dante e gli altri sei priori decisero quindi di dare mostra di esemplare equità, firmando un provvedimento di esilio per i capi delle due fazioni: otto esponenti dei guelfi neri e sette dei bianchi, fra i qual, fra l’altro, l’amico del poeta, iniziatore con lui dello stilnovismo, Guido Cavalcanti. Proprio tale provvedimento determinò, o almeno predispose, è possibile, il successivo isolamento di Dante, inviso anche ai suoi precedenti compagni di partito. In conseguenza di questo, ebbe buon agio Bonifacio VIII di invitare il conte Carlo di Valois, fratello del re di Francia Filippo IV, detto il bello, affinché entrasse in Firenze per sedare, con l’esercito, i tumulti, o meglio, per conquistarla definitivamente. Fu a quel punto che la Repubblica fiorentina, cercando di bloccare il papa e trovare magari un accomodamento, inviò a Roma un’ambasceria, della quale fece parte anche Dante (1301). Invece, proprio come da lui previsto, Carlo di Valois, prendendo a pretesto uno dei soliti tumulti, decise di mettere a ferro e fuoco la città imponendo, nella carica di potestà, Gabrielli da Gubbio, che apparteneva alla fazione più violenta dei guelfi neri. In pochi mesi la situazione quindi si palesò come una vera e propria trappola per coloro che erano stati scelti come ambasciatori di pace: venne intentato contro di loro un processo in contumacia, che contemplava una serie impressionante di accuse, fra cui in particolare quella di baratteria, e l’Alighieri venne condannato all’esproprio di tutti i beni e a morte, se si fosse ripresentato entro i confini del comune. Ebbe così inizio l’esilio di Dante, destinato a durare fino
alla sua morte nel 1321.
Andrea T., Raffaele, Alessandro S., Lorenzo
Focus 4
Arrigo VII e ospitalità presso Cangrande
Nel 1310 Arrigo VII diventa imperatore del
Sacro Romano Impero, che comprende anche l'Italia, e in Dante si
riaccende il sogno di restaurazione del potere imperiale. L’imperatore
scende in Italia per essere incoronato da Papa Clemente V, ma le illusioni
del poeta ben presto svaniscono, in concomitanza con il manifestarsi di
ambiguità nella condotta papale, e resistenze da parte delle città italiane, la
cui componente guelfa era generalmente mal disposta nei confronti del neo
imperatore. A chiudere bruscamente la vicenda, e a far naufragare il sogno
appena accarezzato da Dante, la morte improvvisa di Arrigo nel 1313.
Per il poeta, la discesa dell'imperatore
nei territori italiani si sarebbe potuta tradurre in occasione per porre
definitivamente fine alla contrapposizione fra papato e impero, col
suo corredo di lotte fratricide all'interno dei comuni divisi nelle correnti
guelfe e ghibelline. Per dare forma alle sue aspirazioni, Dante scrive una Lettera
ai principi e ai popoli d’Italia nella quale proclama e manifesta la
sua gioia di fronte agli sviluppi della politica imperiale in atto nel 1310
in Italia. Nel 1311 rende omaggio all’imperatore che arriva a Milano per
ricevere la corona di ferro. Presto tuttavia la situazione degenera, in
particolare quando la guelfa Firenze si pone a capo della resistenza
italiana, e proprio in corrispondenza di questo avvenimento Dante scrive
un’altra lettera indirizzata a quelli ch'erano stati suoi compagni di parte
nella città dove non ritornerà mai. L'ultima della serie dedicata al ritorno
imperiale, è una lettera indirizzata all’imperatore
Arrigo in persona, al quale suggerisce di non indugiare nel Nord Italia e
di assumere fino in fondo e una volta per tutte la responsabilità del
potere. A troncare ogni speranza immessa in questa lettera, rimasta senza
risposta, è senz'altro la morte di Arrigo nel 1313. Di poco successivo, nel
1315, il rifiuto che il poeta oppone a un ignominioso ritorno a Firenze, sotto
condizione di un mea culpa infamante.
Torna dunque a Verona, come
ospite di Cangrande Della Scala, presso il quale aveva soggiornato
già nel 1306. Lo scaligero, figlio di Alberto I, riveste l'incarico di
signore della città, con mandato imperiale, e conduce una politica
espansionistica di rilievo nelle zone circostanti, destinata a renderlo nel
tempo anche padrone di Vicenza, Padova e Mantova. Nel 1318 Cangrande viene
riconosciuto capo della Lega ghibellina, inasprendo così la conflittualità col
papato e venendo scomunicato dall'allora in carica papa Giovanni XXII, nel
1320. La permanenza di Dante presso la corte di Cangrande si protrae fino al
1318, quando il poeta si reca dai Da Polenta a Ravenna, dove trascorre gli
ultimi anni della vita, morendo di malaria nel 1321.
Giacomo, Martina, Francesco, Davide
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