La novella delle papere - materiali per venerdì 13 - (lezione completa al fondo)
Carissime donne, sì per le parole de’ savi uomini udite e sì per le cose da me molte volte e vedute e lette estimava io che lo ’mpetuoso vento ed ardente della ’nvidia non dovesse percuotere se non l’alte torri o le piú levate cime degli alberi: ma io mi truovo della mia estimazione ingannato. Per ciò che, fuggendo io e sempre essendomi di fuggire ingegnato il fiero impeto di questo rabbioso spirito, non solamente pe’ piani, ma ancora per le profondissime valli mi sono ingegnato d’andare; il che assai manifesto può apparire a chi le presenti novellette riguarda, le quali non solamente in fiorentin volgare ed in prosa scritte per me sono e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso quanto il piú si possono: né per tutto ciò l’essere da cotal vento fieramente scrollato, anzi presso che diradicato, e tutto da’ morsi della ’nvidia esser lacerato non ho potuto cessare, per che assai manifestamente posso comprendere, quello esser vero che sogliono i savi dire, che sola la miseria è senza invidia nelle cose presenti. Sono adunque, discrete donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo, hanno detto che voi mi piacete troppo e che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi e di consolarvi, ed alcuni han detto peggio: di commendarvi, come io fo. Altri, piú maturamente mostrando di voler dire, hanno detto che alla mia etá non istá bene l’andare omai dietro a queste cose, cioè a ragionar di donne o a compiacer loro. E molti, molto teneri della mia fama mostrandosi, dicono che io farei piú saviamente a starmi con le Muse in Parnaso che con queste ciance mescolarmi tra voi. E son di quegli ancora che, piú dispettosamente che saviamente
parlando, hanno detto che io farei piú discretamente a pensare donde io dovessi aver del pane che dietro a queste frasche andarmi pascendo di vento. E certi altri, in altra guisa essere state le cose da me raccontatevi che come io lo vi porgo, s’ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. Adunque, da cotanti e da cosí fatti soffiamenti, da cosí atroci denti, da cosí aguti strali, valorose donne, mentre io ne’ vostri servigi milito, sono sospinto, molestato ed infino nel vivo trafitto. Le quali cose io con piacevole animo, sallo Iddio, ascolto ed intendo; e quantunque a voi in ciò tutta appartenga la mia difesa, nondimeno io non intendo di risparmiar le mie forze: anzi, senza rispondere quanto si converrebbe, con alcuna leggera risposta tôrmegli dagli orecchi, e questo far senza indugio, per ciò che, se giá, non essendo io ancora al terzo della mia fatica venuto, essi sono molti e molto presummono, io avviso che avanti che io pervenissi alla fine essi potrebbono in guisa esser multiplicati, non avendo prima avuta alcuna repulsa, che con ogni piccola lor fatica mi metterebbono in fondo, né a ciò, quantunque elle sien grandi, resistere varrebbero le forze vostre. Ma avanti che io venga a far la risposta ad alcuno, mi piace in favor di me raccontare, non una novella intera, acciò che non paia che io voglia le mie novelle con quelle di così laudevole compagnia quale fu quella che dimostrata v’ho, mescolare, ma parte d’una, acciò che il suo difetto stesso sé mostri non esser di quelle; ed a’ miei assalitori favellando dico che
Nella nostra cittá, giá è buon tempo passato, fu un cittadino il quale fu nominato Filippo Balducci, uomo di condizione assai leggera, ma ricco e bene inviato ed esperto nelle cose quanto lo stato suo richiedea: ed aveva una sua donna la quale egli sommamente amava, ed ella lui, ed insieme in riposata vita si stavano, a niuna altra cosa tanto studio ponendo quanto in piacere interamente l’uno all’altro. Ora, avvenne, sí come di tutti avviene, che la buona donna passò di questa vita, né altro di sé a Filippo lasciò che un solo figliuolo di lui conceputo, il quale forse d’etá di due anni era. Costui per la morte della sua donna tanto sconsolato rimase quanto ]
mai alcuno altro, amata cosa perdendo, rimanesse; e veggendosi di quella compagnia la quale egli piú amava rimaso solo, del tutto si dispose di non volere piú essere al mondo, ma di darsi al servigio di Dio, ed il simigliante fare del suo piccol figliuolo. Per che, data ogni sua cosa per Dio, senza indugio se n’andò sopra Monte Asinaio, e quivi in una piccola celletta sé mise col suo figliuolo, col quale, di limosine in digiuni ed in orazioni vivendo, sommamente si guardava di non ragionare, lá dove egli fosse, d’alcuna temporal cosa né di lasciarnegli alcuna vedere, acciò che esse da cosí fatto servigio nol traessero, ma sempre della gloria di vita eterna e di Dio e de’ santi gli ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandogli: ed in questa vita molti anni il tenne, mai della cella non lasciandolo uscire né alcuna altra cosa che sé dimostrandogli. Era usato il valente uomo di venire alcuna volta a Firenze, e quivi secondo le sue opportunitá dagli amici di Dio sovvenuto, alla sua cella tornava. Ora, avvenne che, essendo giá il garzone d’etá di diciotto anni, e Filippo vecchio, un dí il domandò ove egli andava. Filippo gliele disse; al quale il garzon disse: — Padre mio, voi siete oggimai vecchio e potete male durar fatica; perché non mi menate voi una volta a Firenze, acciò che, faccendomi conoscere gli amici e divoti di Dio e vostri, io, che son giovane e posso meglio faticar di voi, possa poscia pe’ nostri bisogni a Firenze andare quando vi piacerá, e voi rimanervi qui? — Il valente uomo, pensando che giá questo suo figliuolo era grande, ed era si abituato al servigio di Dio, che malagevolmente le cose del mondo a sé il dovrebbono omai poter trarre, seco stesso disse: — Costui dice bene. — Per che, avendovi ad andare, seco il menò. Quivi il giovane, veggendo i palagi, le case, le chiese e tutte l’altre cose delle quali tutta la cittá piena si vede, sí come colui che mai piú per ricordanza vedute non n’avea, si cominciò forte a maravigliare, e di molte domandava il padre che fossero e come si chiamassero. Il padre gliele diceva, ed egli, avendolo udito, rimaneva contento e domandava d’un’altra. E cosí domandando il figliuolo ed il padre rispondendo, per ventura si scontrarono in una brigata di belle giovani donne ed ornate, che da un paio di nozze venieno; le quali come il giovane vide, cosí domandò il padre che cosa quelle fossero. A cui il padre disse: — Figliuol mio, bassa gli occhi in terra, non le guatare, ché elle son mala cosa. — Disse allora il figliuolo: — O come si chiamano? — Il padre, per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole disidèro men che utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè «femine», ma disse: — Elle si chiamano papere. — Maravigliosa cosa ad udire! Colui che mai piú alcuna veduta non n’avea, non curatosi de’ palagi, non del bue, non del cavallo, non dell’asino, non de’ denari né d’altra cosa che veduta avesse, subitamente disse: — Padre mio, io vi priego che voi facciate che io abbia una di quelle papere. — Oimè! figliuol mio, — disse il padre — taci: elle son mala cosa. — A cui il giovane domandando disse: — O son cosí fatte le male cose? — Sí — disse il padre. Ed egli allora disse: — Io non so che voi vi dite, né perché queste sieno mala cosa: quanto è a me, non m’è ancora paruta vedere alcuna cosí bella né cosí piacevole come queste sono. Elle son piú belle che gli agnoli dipinti che voi m’avete piú volte mostrati. Deh! se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una colá sú, di queste papere, ed io le darò beccare. — Disse il padre: — Io non voglio; tu non sai donde elle s’imbeccano! — E sentì incontanente piú aver di forza la natura che il suo ingegno, e pentessi d’averlo menato a Firenze. Ma avere infino a qui detto della presente novella voglio che mi basti, ed a coloro rivolgermi alli quali l’ho raccontata.
Dicono adunque alquanti de’ miei riprensori che io fo male, o giovani donne, troppo ingegnandomi di piacervi, e che voi troppo piacete a me. Le quali cose io apertissimamente confesso, cioè che voi mi piacete e che io m’ingegno di piacere a voi; e domandogli se di questo essi si maravigliano, riguardando, lasciamo stare all’aver conosciuti gli amorosi basciari ed i piacevoli abbracciari ed i congiugnimenti dilettevoli che di voi, dolcissime donne, sovente si prendono, ma solamente ad aver veduto e veder continuamente gli ornati costumi e la vaga
bellezza e l’ornata leggiadria ed oltre a ciò la vostra donnesca onestá: quando colui che, nudrito, allevato, accresciuto sopra un monte salvatico e solitario, infra li termini d’una piccola cella, senza altra compagnia che del padre, come vi vide, sole da lui disiderate foste, sole addomandate, sole con l’affezion seguitate. Riprenderannomi, morderannomi, lacererannomi costoro se io, il corpo del quale il cielo produsse tutto atto ad amarvi, ed io dalla mia puerizia l’anima vi disposi sentendo la vertú della luce degli occhi vostri, la soavitá delle parole melliflue e la fiamma accesa da’ pietosi sospiri, se voi mi piacete o se io di piacervi m’ingegno: e spezialmente guardando che voi prima che altro piaceste ad un romitello, ad un giovanetto senza sentimento, anzi ad uno animal salvatico? Per certo chi non v’ama e da voi non disidera d’essere amato, sí come persona che i piaceri né la vertú della naturale affezione né sente né conosce, cosí mi ripiglia: ed io poco me ne curo. E quegli che contro alla mia etá parlando vanno, mostra mal che conoscano che, perché il porro abbia il capo bianco, che la coda sia verde; a’ quali, lasciando il motteggiar dall’un de’ lati, rispondo che io mai a me vergogna non reputerò infino nello stremo della mia vita di dover compiacere a quelle cose alle quali Guido Cavalcanti e Dante Alighieri giá vecchi e messer Cino da Pistoia vecchissimo onor si tennero, e fu lor caro il piacer loro. E se non fosse che uscir sarebbe del modo usato del ragionare, io producerei le istorie in mezzo, e quelle tutte piene mostrerei d’antichi uomini e valorosi, ne’ loro piú maturi anni sommamente avere studiato di compiacere alle donne; il che se essi non sanno, vadano e si l’apparino. Che io con le Muse in Parnaso mi debba stare, affermo che è buon consiglio: ma tuttavia né noi possiamo dimorar con le Muse né esse con essonoi. E quando avviene che l’uomo da lor si parte, dilettarsi di veder cosa che le somigli, questo non è cosa da biasimare: le Muse son donne, e benché le donne quel che le Muse vagliono non vagliano, pure esse hanno nel primo aspetto simiglianza di quelle, sí che, quando per altro non mi piacessero, per quello mi dovrebber piacere; senza che, le donne giá mi fûr cagione di comporre mille versi, dove le Muse mai non mi furono di farne alcun cagione. Aiutaronmi elle bene e mostraronmi comporre que’ mille: e forse a queste cose scrivere, quantunque sieno umilissime, si sono elle venute parecchie volte a starsi meco, in servigio forse ed in onore della simiglianza che le donne hanno ad esse; per che, queste cose tessendo, né dal monte Parnaso né dalle Muse non mi allontano quanto molti per avventura s’avvisano. Ma che direm noi a coloro che della mia fame hanno tanta compassione, che mi consigliano che io procuri del pane? Certo io non so, se non che, volendo meco pensare quale sarebbe la loro risposta se io per bisogno loro ne domandassi, m’avviso che direbbono: — Va’ cercane tra le favole. — E giá piú ne trovarono tra le loro favole i poeti, che molti ricchi tra’ loro tesori, ed assai giá, dietro alle loro favole andando, fecero la loro etá fiorire, dove in contrario molti nel cercar d’aver piú pane che bisogno non era loro, perirono acerbi. Che piú? Caccinmi via questi cotali qualora io ne domando loro: se non che, la Dio mercé, ancora non mi bisogna; e quando pur sopravvenisse il bisogno, io so, secondo l’Apostolo, abbondare e necessitá sofferire: e per ciò a niun caglia piú di me che a me. Quegli che queste cose cosí non essere state dicono, avrei molto caro che essi recassero gli originali, li quali se a quel che io scrivo discordanti fossero, giusta direi la lor riprensione e d’ammendar me stesso m’ingegnerei: ma infino che altro che parole non apparisce, io gli lascerò con la loro oppinione, seguitando la mia, di loro dicendo quello che essi di me dicono. E volendo per questa volta assai aver risposto, dico che dell’aiuto di Dio e del vostro, gentilissime donne, nel quale io spero, armato, e di buona pazienza, con esso procederò avanti, dando le spalle a questo vento e lasciandol soffiar, per ciò che io non veggio che di me altro possa avvenire che quello che della minuta polvere avviene, la quale, spirante turbo, o egli di terra non la muove, o se la muove, la porta in alto e spesse volte sopra le teste degli uomini, sopra le corone dei re e degl’imperadori, e talvolta sopra gli alti palagi e sopra le eccelse torri la lascia; delle quali se ella cade, piú giú andar non può che il luogo onde levata fu. E se mai con tutta la mia forza a dovervi in cosa alcuna compiacere mi disposi, ora piú che mai mi vi disporrò, per ciò che io conosco che altra cosa dir non potrá alcuno con ragione, se non che gli altri ed io, che v’amiamo, naturalmente operiamo; alle cui leggi voler contrastare troppo gran forze bisognano, e spesse volte non solamente invano, ma con grandissimo danno del faticante s’adoperano. Le quali forze io confesso che io non l’ho né d’averle disidero in questo, e se io l’avessi, piú tosto ad altrui le presterei che io per me l’adoperassi. Per che tacciansi i morditori, e se essi riscaldar non si possono, assiderati si vivano, e ne’ lor diletti, anzi appetiti corrotti, standosi, me nel mio questa brieve vita che posta n’è lascino stare. Ma da ritornare è, per ciò che assai vagati siamo, o belle donne, lá onde ci dipartimmo, e l’ordine cominciato seguire.----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
LA
NOVELLA DELLE PAPERE E CONCLUSIONE
Leggere il Decameron ha una corrispondenza, per
cominciare, con la contemplazione di un quadro con una cornice interessante, se
non non indispensabile, per l’intendimento del quadro nel suo insieme. In
aggiunta, è una cornice che riesce a essere, a sua volta, contenitore di una
storia, con tanto di ambientazione e personaggi. La prima ambientazione della
cornice è la chiesa di Santa Maria Novella in Firenze, la seconda ambientazione
la villa nel contado fiorentino in cui i
dieci componenti della brigata di
novellatori decidono di recarsi per ritrovare un'esistenza normale, ossia
naturale e regolare al tempo stesso, dopo che la peste ha messo in crisi
l'intero contesto sociale. Se in Firenze regna il disordine, nella magione dove
si ritirano a vivere i dieci giovani regnano l'ordine e la piacevolezza. La
cornice, quindi rappresenta il contraltare dell'orrore che si è impadronito
della città. In essa si dispongono, suddivise secondo le giornate, le
narrazioni di ciascun giovane: ogni giornata 10 novelle, per un totale di 100.
Ogni giorno viene nominato un re o una regina della giornata, che stabilisce il
tema dominante della narrazioni, con l'unica eccezione di Dioneo, al quale
spetta sempre il privilegio della libertà.
La IV giornata, però, contiene un'eccezione: all'interno della cornice prende
la parola l'Autore, Boccaccio, per raccontare una novella, che rappresenta
quindi la centounesima della raccolta. Questa novella è nota come La
novella delle papere.
L'Autore, proprio come nel proemio, al quale idealmente si ricollega, si
rivolge direttamente al pubblico delle carissime donne, per
compiere quella che, nella tradizione della commedia greca, si presenta come
un'apologia, autodifesa, della sua opera. Con un incipit in stile ciceroniano, volutamente ampolloso e ricercato,
Boccaccio introduce una professione di umiltà: non si attendeva di diventare
oggetto di invidiosi attacchi, pensando che la sua opera non potesse scatenare
simili effetti. Contrariamente a queste sue aspettative, che quelle che
definisce novellette non dessero fastidio a nessuno né nel
bene né nel male, esse sono state invece giudicate molto negativamente: in
particolare si è attirato l'accusa di volere compiacere le donne (che infatti
continua a citare come privilegiate interlocutrici), di correre dietro a loro
pur essendo in un'età che dovrebbe suggerirgli di mantenere costumi più sobri,
di trattare insomma argomenti alla fin fine scabrosi, in quanto erotici,
dai quali farebbe meglio ad astenersi. Decide quindi, per difendersi da queste
accuse, in crescendo infamanti, di raccontare una una novella in favor
di me, ma non intera, bensì parziale, di modo che non sembri che faccia
parte della serie di altre novelle. Il protagonista di questa novella parziale
è tal Filippo Balducci, uomo non nobile di famiglia, ma ricco e attivo nella
società, che aveva sposato una donna che amava moltissimo e dalla quale era
riamato. La donna a un certo punto morì, lasciandolo solo con un figlio di soli
due anni. Filippo non seppe consolarsi della perdita e decise di abbandonare la
vita secolare, portando con sé il bambino: dati tutti i beni alla chiesa, si
ritirò con lui sul Monte Asinaio, presso Firenze, e iniziò a vivere in una
minuscola cella, dedito a elemosine e a digiuni, insieme al figlioletto. Si
mise in mente, tra l'altro, di fare in modo che il figlio non conoscesse altro
che argomenti spirituali, non lasciandolo quasi uscire dalla cella e
intrattenendolo e istruendolo solo attraverso preghiere e racconti sacri.
Quando per necessità doveva andare a Firenze, per provvedersi di qualcosa,
lasciava il figlio nella cella. Giunto all'età di diciotto anni, il ragazzo
domandò al padre ormai vecchio che si disponeva ad andare in città, dove mai si
recasse, e quando lo seppe domandò di poterlo accompagnare, per aiutarlo nella
questua e eventualmente poterlo sostituire quando egli non fosse più
riuscito a recarvisi. Il padre, che aveva provveduto a ispirare al figlio solo
e sempre pii pensieri, convinto che non si sarebbe oramai lasciato conquistare
da nessuna tentazione terrena, accettò. Il figlio, alla vista delle case, delle
chiese, di tutti gli elementi caratteristici della città non smetteva di
meravigliarsi e di chiedere il nome di ciò che vedeva. Il padre gli rispondeva
di buona grazia. A un certo punto, per caso, si imbatterono in una brigata di
giovani donne, che ritornavano tutte agghindate da una festa di nozze. Alla
solita domanda del figlio, come si chiamassero, il padre rispose "elle si
chiamano papere". Col corredo del commento dell'Autore, che registra come
il ragazzo non si fosse lasciato conquistare da palazzi, chiese e nient'altro
avesse colpito fino a quel momento il suo sguardo innocente, il giovane
entusiasta chiede subito di avere una di quelle papere. Il padre
immediatamente risponde taci, sono mala cosa. Il giovane, allora,
proprio in grazia di quell'ingenuità che il padre ha coltivato in lui, replica
energicamente: o son così fatte le male cose? e alla risposta
affermativa del padre, che palesa in questo modo la sua stoltezza, io
non so che voi vi dite, né perché queste sieno mala cosa; quanto a me, non mi è
ancora paruta vedere alcuna cosa così bella né così piacevole come queste sono.
Il giovane prosegue dicendo che nemmeno gli angeli che il padre gli ha fatto
profusamente conoscere sono belli così e conclude con una battuta finale che
suona, a orecchie smaliziate come le nostre, ma non alle sue, piuttosto
spinta: deh, se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una colà sù,
di queste papere, e io le darò da becare. La novella, come promesso
dall'Autore, si chiude sull'incapacità da parte del padre di replicare se non
pronunciando a sua volta una sorta di impudica sentenza: io non voglio;
tu non sai donde elle s'imbeccano. E sentì incontamente più aver forza la
natura che il suo ingegno e pentessi d'averlo menato a Firenze. Riprendendo
la parola in modo diretto, l'Autore quindi confessa di amare le donne e di fare
di tutto, come narratore, per incontrare il loro favore. La forza comunicativa
di questa novella atipica, rispetto alle altre del Decameron,
consiste tra l'altro nel suo proporsi in una forma volutamente tronca. Non si
sa come continui, ma è lasciato spazio all'immaginazione di ciascuno, che può
terminarla a suo piacimento. Padre e figlio torneranno nella loro cella e il
figlio riprenderà la sua, non scelta, esistenza eremitica? Oppure il figlio
cederà agli imperiosi richiami della natura e, prima o dopo la morte del padre,
sceglierà per la prima volta cosa fare davvero della sua vita? Le risposte non
importavano all'Autore, ma possono anche importare a noi, che come lettori di
secoli dopo ci arroghiamo il diritto inestinguibile di lasciarci ispirare da
ogni narrazione nella maniera più consona alla nostra sensibilità individuale e
collettiva. Da lettrice contemporanea mi figuro che il giovane si liberi
finalmente della sudditanza rispetto al sistema di pensiero del padre. Un padre
tirannico a fin di bene (come non di rado pretende di esercitarsi la tirannide
soprattutto familiare) che pretende di condizionare il figlio alla luce (o
all'ombra) delle sue personali esperienze. La novella delle papere, di là
dal senso specifico che assume per l'apologia di Boccaccio della quale vi ho
detto, è una novella di formazione rovesciata: nel senso che dimostra come,
un'educazione imposta senza criterio e rispetto del soggetto da educare, viene
prima o poi smascherata dalla voce imperiosa della natura. Lei non può essere
ingannata con false parole, non ammette le ipocrisie, perché riconosce di là da quello che viene detto, l'imperativo
categorico che proviene dalla sfera delle sensazioni e dei sentimenti.
La scelta
di associare il Decameron di Boccaccio a un’opera ottocentesca come la Comédie humaine di Balzac è
primariamente collegata all’importanza assegnata alla componente realista nella
narrazione di questo autore del Trecento. Realistiche e verosimili, anche
quando sfiorano territori sovrannaturali o riproducono modalità fiabesche per
l’intrico incessante di eventi o per l’inatteso disporsi di colpi di scena, le
novelle mettono di fronte a tipi umani sempre credibili. Ne passo in rassegna qualcuno. Prendiamo il caso di
Calandrino e delle varie novelle a lui dedicate. Lo si vede credere alle
proprietà miracolose di una pietra che rende invisibili, pensare di essere
rimasto incinto, incaponirsi a conquistare una donna che non vuole saperne di
lui e per questo mettersi nei guai con la moglie, e lo si riconosce come il tipo umano
predisposto all’inganno e alla presa in giro, noi oggi diremmo che Bruno e Buffalmacco
lo bullizzano, non fosse che il suo animo è talmente meschino che vien da
pensare se lo meriti proprio, come contrappasso per lo meno del comportamento
violento e ingiusti nei confronti di Monna Tessa sua moglie. Quanto poi alle
varietà di amorosi, siano essi preda
di sentimenti platonici o di soprassalti di erotismo compulsivo, danno un’idea
precisa di come nelle relazioni umane, persino quelle più irregimentate e
condizionate da costumi, credenze, fedi, organizzazione sociale, la voce della
natura risuoni potentemente, sfrenatamente e induca a compiere atti che
superano i confini del lecito e del consentito, portando alcuni alla morte,
mentre altri, favoriti dalla sorte, riescono a ottenere ciò che desiderano, con
o senza particolari scotti. Così, se Lisabetta da Messina, nella sua fiaba a
pessimo fine, si trasforma in una sorta
di icona dell’amore sacrificato sull’altare delle convenzioi sociali, Nastagio
degli Onesti corona invece, con la complicità di un Domineddio che lascia
aperto uno spiraglio dell’inferno per insegnare qualcosa a chi è ancora vivo
sulla Terra, un amore che sfida le leggi del buon senso, rivolgendosi a
un’amata che non vuol saperne di essere tale. Nel gioco dell’amore e degli
amori, della sensualità e delle relazioni umane nel loro insieme, gioca una
parte fondamentale il destino, che organizza e disorganizza le vite, colpisce
violentemente onesti e probi, animi sensibili e innocenti, mentre dona benefici
a irriconescenti e immeritevoli. Anche qui, proprio come può accadere nella
realtà, persone di grande levatura morale vengono bistrattate dalla sorte, come
avviene a Gualtieri d’Anguersa, caduto nella trappola della vendetta di una
donna respinta, mentre soggetti di pessima reputazione sembrano ottenere grazia
addirittura dal cielo, come il criminale Ciappelletto trasformato in
dispensatore di miracoli. Sembra proprio che quell’immenso caleidoscopio che è
il mondo non cessi di scomporsi e ricomporsi in disegni inediti: per quanto i
colori a disposizione si possano ripetere le immagini cambiano sempre. Come per
Dante, non a caso ammiratissimo da Boccaccio, la volontà di scandagliare gli
abissi è un imperativo categorico messo al servizio di un esercizio di
comprensione del mondo e dell’essere umano. L’Alighieri ha scelto, nel poema,
la via della rappresentazione allegorica d’un viaggio condotto attraverso regni
ultraterreni, mirante a percorrere le tappe di una formazione iniziatica:
l’inferno corrisponde alla penetrazione, forse compenetrazione, nel male
assoluto, il purgatorio all’accettazione della possibilità di essere perdonati,
qualunque errore sia stato commesso, il paradiso alla pacificazione definitiva
di ogni desiderio e al raggiungimento di un equilibrio eterno. Boccaccio, con la sua prosa variegata, con
una penna intinta nel realismo per quanto talora divagante nei regni della
fantasia, esercita senza pudore il diritto assoluto di parlare di qualunque
cosa, purché il racconto riesca a produrre in chi lo ascolta un ininterrotto e
vero piacere.
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