PERSONALITA' TRAVAGLIATA ALLA RICERCA DI RISPOSTE ESISTENZIALI - DUE SCRITTI
Martina S.
Petrarca è una personalità artistica e un intellettuale che rispecchia i nuovi valori dell’epoca di passaggio tra medioevo e umanesimo, la corrente culturale che, nel sistema di classificazione comunemente adottato, viene identificata con il 1300 e il principio del 1400, periodo in cui sfuma e si confonde col Rinascimento. Quello di Petrarca infatti è un viaggio interiore, che riflette un tipico tratto umanista: la ricerca permanente e inesausta, trasformata in qualche caso in motivo esistenziale.
La ricerca è in effetti il filo rosso di Petrarca e, per restituirne tutta la centralità, occorre riconoscere come si tratti di un’attività svolta su più piani, a loro volta passibili di vario intendimento.
Il viaggio introspettivo è presente, per cominciare, nel Secretum, in cui si si esplica attraverso l’analisi dell’interiorità condotta in forma dialogica. I frutti del Secretum, ossia quanto il poeta comprende di sé e porta alla luce avvalendosi tanto di acutezza d’ingegno quanto di sensibilità psicologica, sono per così dire ulteriormente valorizzati dall'Autore nel Canzoniere, opera che, quanto a perfezione formale, costituisce a lungo un modello insuperato, assunto come tale almeno fino al neoclassicismo settecentesco.
Per compiere il primo passo nella risoluzione, o forse sarebbe meglio dire nel tentativo di chiarificazione del suo io tormentato e contraddittorio, Petrarca si avvale della figura di Sant’Agostino, il padre della chiesa autore, tra l’altro, delle Confessioni: un diario in cui, attraverso una scrupolosa analisi introspettiva, raggiunge la fede. Grazie dunque alla rassicurante, sul piano dottrinale e umano, presenza di questa voce autorevole, Francesco si avvia nella ricerca che ha come obiettivo se non la fine, sicuramente la mitigazione di una tempesta.
Saper addomesticare e comprendere la natura dei problemi dell’animo diventerà dunque l’equivalente della lotta contro l’accidia. Francesco descrive la permanenza di quella che riconosce come la sua infermità in questi termini:
perché tutto in lei è tristo, misero, aspro ed orrendo
Gli aggettivi utilizzati sono tutti negativi ed esprimono il suo stato di disperazione che, in chiave cristiana, costituisce peccato poiché priva del tutto di speranza, una delle tre virtù teologali.
La ricerca dunque, spostandosi su un piano di intendimento ancor più profondo, si può anche concepire come consapevolezza di essere nel buio e, soprattutto, come coscienza di provare voluttà e compiacimento in tale condizione.
Il piacere di stare male diventa infatti uno degli ostacoli che s’interpongono alla guarigione, nonché una caratteristica che connota il disagio medesimo:
E per colmo di sventura, mentre di sì fatta guisa essa mi accuora e dolorosamente m'affrange, io mi sento preso da una cotal voluttà. - Secretum (Francesco)
In questa frase attribuita da Petrarca a Francesco, alter ego ammalato e affranto, figura quella che può sembrare in prima analisi una contraddizione: la melanconia, l’infermità che affligge Petrarca, comporta una certa voluttà, produce un piacere. Tuttavia, proseguendo, figura: ma passo passo, mi ritiro nella rôcca della ragione.
La ragione, per via di sottile paradosso, che tuttavia la psicologia non solo riconosce ma studia, diventa l’equivalente della non voluntas, ovvero di una specifica condizione di assenza di volontà: in particolare l’arroccarsi nella ragione diventa un vincolo troppo stretto, nel quale si manifesta l’impossibilità di combattere la melanconia, l’umor nero, quello stato che rappresenta fondamentalmente la malattia del poeta.
La meschinità intesa come malessere rappresenta il risultato dell’ambivalenza che si manifesta nell’animo di Petrarca: da un lato vi è il desiderio di raggiungere obiettivi, in particolare la gloria poetica, ma una volta ottenutala, diventa tutto così buio che ritirarsi nella rocca della ragione si rivela essere l’unica soluzione. Questa stessa ambivalenza che Petrarca confessa apertamente nel Secretum viene riproposta nel Canzoniere, esempio di composizione armonica e perfetta in cui tuttavia è data testimonianza precisa dei tumulti interiori di cui stiamo trattando. Nei sonetti destinati ad assurgere a modello per l’intera storia della letteratura, traspare lo stato inquieto di Petrarca che, in rime sparse, conduce all’interno del suo ambivalente stato melanconico, intessuto di desideri prettamente spirituali e della consapevolezza di essere stato, per tutta la vita, in preda (vittima consenziente) ad Amore.
Nonostante Petrarca non raggiunga mai, a detta sua, quella pur provvisoria consapevolezza di sé tanto auspicata, comprende bene a chi si deve rivolgere per poter affievolire la sua infermità: al poeta latino Orazio che, rammenta a un certo punto, ha espresso l'indimenticabile concetto della mediocrità da intendersi come valore.
L'aurea mediocrità chi lieto abbraccia,
Non del povero tetto si contrista;
Ma il livor che dell'invido è martello
Con aurea mediocrità si intende infatti la nobilitazione della mediocrità (condannata nel linguaggio odierno), ovvero l'intrinseca saggezza che si esprime in quello status equilibrato e armonico, sottratto alle tentazioni dell’accumulo permanente così tipico dell’umanità, che permette di prendere in analisi se stessi e portare avanti il processo di definizione provvisoria del proprio io. Tuttavia è interessante notare come l’animo profondamente afflitto da questa infermità, che dà luogo a un’atmosfera buia, tetra, priva di orizzonti, sia del tutto funzionale alla creazione artistica, che si nutre spesso di umori melanconici, ai quali la tecnica compositiva riesce a dare un senso e una forma.
Petrarca, ad esempio, attuerà questo attraverso la scrittura nel Rerum vulgarium fragmenta, che rappresenta la soluzione stilistica all'insolubile problema esistenziale.
Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.
Il sonetto ci guida nella tragica condizione dell’io lirico; in lenti passi si misura autonomamente il peso della propria infermità. Ancora una volta domina la solitudine poiché il suo tormento è esplicitato dal suo essere al mondo.
Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co·llui.
Questo stato di isolamento tuttavia risulta essere accompagnato da un’inevitabile presenza: Amore.
Fra le vane speranze e ’l van dolore, ove sia chi per prova intenda amore, spero trovar pietà, nonché perdono. […]
Di me medesmo meco mi vergogno; et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.
Sembra che il poeta abbia così chiuso un cerchio inaugurato nel sonetto proemiale, nel quale traspare il dolore procurato da Amore, lo stesso amore che lo accompagna nella solitudine. Il cerchio è fatto di auto-analisi e inabissamenti introspettivi, nonché della vergogna intrecciata anche, ma non solo, col dolore provato per le dicerie del popolo che diventa, insieme a Spero, il filo rosso che guida il poeta nella sua presentazione dell’opera. La vergogna è, in ultima analisi, lo strumento finale: il risultato del suo errare giovanile che tuttavia non è più privo di senso, non porta più a una strada impraticabile, bensì diventa motore e stimolo di coscienziosa evocazione del mondo, il precario, labile e perituro mondo terreno.
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Alessandro, Gi.
Durante il corso di quest’anno scolastico abbiamo incontrato e approfondito diversi autori seguendo il filo rosso dell’amore della passione, muovendoci quasi sempre nell'ambito delle letterature romanze, ma con qualche incursione nell'Antico: più precisamente, dai frammenti di Saffo e dalle emulazioni di Catullo, fino all’Amor Cortese per poi finire con lo Stilnovismo e con Petrarca, iniziatore dell'Umanesimo. Poeta aretino, vissuto nel periodo di transizione tra il Medioevo e l’Umanesimo, forse anche per il fatto di vivere una fase di trapasso, pare costantemente alla ricerca di equilibrio esistenziale, in permanente esitazione tra otium, le attività liriche, ma anche quelle dello spirito, e negotium, le attività pratiche come la partecipazione politica, sotto forma di collaborazione, in veste di intellettuale, a colloqui tra potenti o, ancora, la diretta partecipazione agli eventi sociali. Inevitabile, vista l'intrinseca contraddittorietà di obiettivi, ch'egli riconosca in sé un accidioso, bloccato in uno stato di noluntas, riluttanza all'azione di fronte alla vita e ai suoi stimoli, argomento ampiamente approfondito all’interno del Secretum, nel quale svolge un lavoro di autoanalisi attraverso il suo interlocutore: un autorevolissimo Sant’Agostino, padre della chiesa, scelto come confessore e consigliere a fronte di travagli che, non di rado, giungono a mettere in discussione la fede cristiana medesima.
In forma dialogica, Petrarca descrive il suo stato di disperazione perenne ad Agostino, ricorrendo a cumuli di aggettivi connotanti in modo negativo il tormento esistenziale che sfocia in disperazione (tristo, misero, aspro, orrendo), ovvero un peccato mortale per la dottrina cristiana, e dunque ulteriore fonte di turbamento. Durante il colloquio con Agostino, quest’ultimo cerca di indagare in merito alle angosce del poeta per discuterne razionalmente, ma Petrarca ha perfino da ridire in merito al suo tentativo di razionalizzazione, dato che definisce rocca della ragione un edificio all’interno del quale è impossibile sentirsi veramente liberi: come dire che nemmeno la funzione che nobilita l'essere umano, rendendolo prossimo al divino, è in grado in casi del genere di respingere assalti provenienti dal mondo tumultuoso delle passioni e alimentati da una passività voluttuosa, di cui è difficile persino parlare. Il padre della chiesa, dunque, prosegue per gradi, cercando di riportare Francesco con i piedi per terra con frasi come: “Si può dire che la fortuna è tale quando risparmia i patimenti peggiori.” Fa così emergere il profondo senso di insoddisfazione personale e una delle “catene di diamanti” che lo ancorano ai valori terreni: la sete di gloria. Partendo sempre da un suggerimento di Agostino, viene elaborato il tema della competizione (per la gloria) alla quale Francesco si dichiara estraneo, sottolineando come la concezione epicurea di aurea mediocritas sia esempio di metodo costruttivo per impiegare la competizione, nonché antidoto per la sua malinconia.
Nonostante sia giunto a tali conclusioni, nella sua vita opera diversamente, trovando rifugio, o meglio ancora una sorta di catarsi, solamente nella poesia e nel perfezionismo stilistico. A riprova di questo possiamo addurre l' opera prediletta, se non da lui certamente dai posteri: quel Canzoniere al quale sul manoscritto originale Petrarca appose il titolo Rerum vulgarium fragmenta, principalmente intessuto del nome e della persona amata di Laura.
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