APPROFONDIMENTO DANTE - INTERVISTA A MARIA CORTI
Dante e l’Islam, elaborato composto a partire dall’intervista di Maria Corti e curata da Giampiero Marani
Approfondimento di Alessandro Gi., Andrea T., Martina
L'articolo è la trascrizione di un'intervista a Maria Corti, filologia e critica letteraria italiana, risalente al 20 aprile del 2000.
Quello che si verifica nel Duecento è un fenomeno unico e affascinante, che interessa la storia della letteratura medievale. Dall’incontro tra due culture profondamente diverse, quella islamica e quella cristiana, nasce un processo di fusione e scambio di idee, vocaboli, pensieri e concetti provenienti da due contesti culturali maturati con tempistiche diverse, oltre che a distanza uno dall'altro. Definire i contorni e la portata dello scambio in questione risulta ancora difficile per i filologi e gli storici nostri contemporanei, animati dal desiderio di ricostruire esattamente quali elementi provenissero da una cultura e quali dall’altra; anche perché gli stessi intellettuali medievali, tra cui certo Dante, alle volte integrano arabismi senza averne piena coscienza, ovvero senza lasciare tracce evidenti dell'assimilazione realizzata.
Dante risente dunque, questo è un dato accertato, direttamente e indirettamente dell’influenza araba, e non è peregrino domandarsi come sarebbe la Commedia senza gli arabi e la loro cultura.
Una parte di queste influenze arabeggianti in Dante non furono volontarie, nel senso che non ci furono solo influenze arabe rese possibili grazie alle fonti (processo dell’intertestualità), ma si verificò anche un altro tipo di fenomeno chiamato interdiscorsività. A questo proposito si può ricorrere a un esempio tratto da un celebre canto della Divina Commedia: le colonne d’Ercole, situate nei pressi dello stretto di Gibilterra, sono le protagoniste del ventiseiesimo canto dantesco, nel quale l’ormai anziano Ulisse con i suoi pochi e vecchi compagni rimangono vittime di un inganno divino. Le colonne rappresentano il limes insuperabile, concetto introdotto, con questa precisa accezione al divieto, solo dagli arabi e che Dante utilizza senza essersi rifatto a una precisa fonte araba.
Il concetto era stato ormai accolto consistentemente nella cultura occidentale, ci sono infatti numerosi trattati che propongono questo limes invalicabile, come per esempio Il mare amoroso, nel quale viene proposta la figura di Maometto, statua eretta presso lo stretto di Gibilterra, con una mano che ammonisce a non varcare appunto tale soglia geografica. Il divieto, il safi (così risulta in arabo), nasce inoltre per una ragione di tipo commerciale, dato che gli arabi potevano avvalersene per esercitare un controllo sul commercio nel Mediterraneo.
D'altronde la stessa attribuzione a Ulisse di una concezione di limes coincidente con lo Stretto di Gibilterra è qualcosa che proviene dall’antichità. Il geografo e filosofo greco Strabone, grande viaggiatore che si spostò dal mondo occidentale a quello orientale ripetute volte, nel 58 d.C. scrive che sopra lo stretto di Gibilterra vi era una città chiamata Odussea, cioè città di Ulisse, e che di fianco alla città vi era un tempio dedicato ad Atena (protettrice dell’eroe) dove erano appesi parti intere e pezzi della nave naufragata di Ulisse. Anche nella Historia General di Alfonso il Savio viene ripreso il naufragio di Ulisse che, una volta fondata la città di Lisbona, sarebbe tornato da Penelope e avrebbe sognato il naufragio. Non siamo in questo caso dinanzi a un fenomeno di intertestualità, in quanto Dante non cita una fonte precisa, con corrispondenze formali e tematiche. È tuttavia interessante notare che il naufragio attribuito ad Ulisse era un tema ricorrente nella letteratura medievale già prima della scrittura della Divina Commedia.
L’episodio del naufragio di Ulisse in Dante dà la possibilità di indugiare un poco sulla dinamicità e il cambiamento della filosofia di Dante nell’affrontare questioni quali la sete di sapere che sconfina nell’hybris e nella sfida al divino. Dante contrappone se stesso ad Ulisse il quale, insoddisfatto della sua condizione, riparte alla ricerca di una verità, la perde e sprofonda giù negli inferi (come altrui piacque, ossia per imperscrutabile volere divino). Per Dante, invece, vale un altro tipo di concezione, dato che Come ad altrui piacque, il poeta sale in paradiso, e questo evento, salvifico per lui, consegue a una mutata posizione filosofica. Precisamente, Dante abbraccia per un periodo, coincidente con quella fase di sviamento collegata nella Vita nuova con l'allegorica donna gentile che distrae da Beatrice, la filosofia dell’aristotelismo radicale, la quale ha come principale interesse una ricerca che metta in primo piano l’intelletto umano e l’eternità del mondo; si tratta di una filosofia condivisa anche da Cavalcanti che, a differenza di Dante, rimarrà fedele a essa per l’intera vita.
Dante tuttavia necessita di possedere la solidità della visione cristiana per la scrittura della Commedia, ed è così che inizia la crisi del poeta. Travaglio interiore che si può per altro ben osservare nel Convivio. Nei primi tre trattati Dante segue infatti la filosofia degli aristotelici radicali e la descrive attraverso l’apparizione di una donna (amor che nella mente mi ragiona); la crisi dell'aristotelismo è segnata dall’inizio della scrittura della Divina Commedia: Dante prende definitivamente le distanze dalla corrente dell’aristotelismo radicale e abbraccia la filosofia tomistica. Nel quarto trattato del Convivio cambia dunque il linguaggio filosofico da lui adottato.
Alla luce di queste considerazioni può ben essere spiegato il motivo del naufragio di Ulisse nel ventiseiesimo canto, nei termini simbolici del naufragio dei filosofi che non cercano la verità, cercano degli errori e naufragano prima di raggiungere il porto della verità (San’Agostino).
Il naufragio attribuito alla figura di Ulisse, presente già nella tradizione medievale, diventa dunque l’espediente grazie al quale Dante testimonia la differenza tra la sua posizione e quella di Ulisse. Egli, a differenza del vecchio Ulisse, si salva perché non più seguace dell’aristotelismo radicale bensì della filosofia tomistica. Così ad Ulisse fa pronunciare la frase di Boezio di Dacia, seguace dell’averroistica latina (Averroè è un empio commentatore dell’aristotelismo radicale): Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza (De Summo, Boezio).
Le Colonne d’Ercole di Ulisse, dunque, sono una ripresa indiretta della cultura araba, di cui Dante si serve senza citare direttamente una fonte.
Esiste tuttavia un’altra forma in cui il poeta ha inserito nelle sue opere elementi presenti negli scritti arabi. Si tratta in questo caso di riconoscere il fenomeno dell’intertestualità e dunque della via diretta che mira alla conoscenza della cultura attraverso lo studio delle fonti riconoscibili grazie a corrispondenze tematiche e formali.
Si tratta di un processo iconico che prende corpo grazie a due personalità estremamente interessanti: Federico II, imperatore re di Sicilia e Alfonso decimo il Savio, re di Castiglia nonché grande poeta. Questi due sovrani condividono una certa sensibilità verso il mondo della letteratura e dell’arte nel quale possono avvenire l’incontro, la condivisione e la fusione tra realtà differenti. L’evento di rilievo è il rinnovato incontro con la cultura greca, che approda nuovamente in Occidente grazie agli arabi che, accolti nelle due corti, portarono con loro il lavoro secolare di trascrizione e traduzione degli antichi testi greci.
L’intera attività incontrò l'approvazione, forse l'entusiasmo, di Alfonso il Savio, che decise infatti di fondare la scuola di Toledo, sede che rappresenta il punto fisico nel quale l’incontro di due mondi diversi si concretizza, avviando un processo di scambio culturale unico nella Storia. Federico II dal canto suo, vissuto per gran parte della sua vita lontano dalla capitale, in particolare in Sicilia, fu anch'egli un grande promotore del dialogo, dell'intertestualità, tra cultura araba e occidentale.
L’intertestualità è dunque il coronamento di quell’affascinante fenomeno che inizia con l’incontro tra culture e culmina con lo scambio di materia e produzioni tra esse. A questo punto sembra dunque opportuno chiedersi come Dante si sia avvicinato così tanto alla cultura araba. E bene dunque introdurre la figura di Brunetto Latini, personalità estremamente importante per Dante, che gli riserva infatti un vero e proprio monumento di parole nella Commedia, per quanto il maestro venga collocato nell’inferno dallo stesso Dante. Quello che però risulta estremamente interessante sono l’importante influenza e il ruolo che Brunetto Latini ebbe nella vita del poeta. Non si tratta solo del ruolo politico e del figurabile, ma non certo, ruolo che ebbe come maestro nella vita di Dante, ma anche della vicinanza e amicizia di Brunetto Latini con Alfonso il Savio nella cui corte introdusse la figura di Bonaventura da Siena, traduttore poi di un libro composto in arabo nell’ottavo secolo intitolato Liber Scalae Maometti (Libro della Scala di Maometto).
Nell’opera viene descritto il viaggio di Maometto nell’aldilà accompagnato dall’Arcangelo Gabriele, prima nel paradiso e poi nell’inferno. Si tratta di un’opera che Dante conosce grazie a Brunetto Latini, che infatti si sposta da Oviedo (nella Castiglia) a Firenze e che, con tutte probabilità, renderà nota la presenza di questo importante testo, che in poco tempo divenne noto in tutto l’Occidente e da cui Dante trae molto, dando visibili segnali che inducono a considerare in molti casi il Liber Scalae Maometti come vera e propria fonte del sommo poeta fiorentino.
L’intero Malebolge (ottavo cerchio dell’inferno che si suddivide in dieci Bolge) è ripreso dal Libro della Scala di Maometto: l’episodio dei ladri con i serpenti della settima Bolgia; i fraudolenti avvolti dalle fiamme dell’ottava, la metafora dei seminatori di discordia (homines qui seminant discordiam) della nona Bolgia.
Non solo, anche il contrappasso come meccanismo per stabilire le pene è un altro elemento che suggerisce questa forte vicinanza alla fonte araba. Il contrappasso è il meccanismo secondo il quale i dannati devono provare sofferenze analoghe o opposte alla colpa commessa ed è questo un concetto presente nella religione cristiana e nella religione araba, seppur con qualche differenziazione rispetto alle leggi secondo le quali il meccanismo del contrappasso agisce. Dante predispone in inferno e in purgatorio le leggi presentate nel Liber Scalae Maometti.
Un altro elemento che viene proposto dal poeta come fonte è la concezione del Basso inferno e della città di Dite che Dante descrive alla stessa maniera araba. Nel Libro della Scala il basso inferno pullula di diavoli (è l’abitatio diaboli) con case avvolte da un fuoco perenne. Dante predispone lo stesso scenario nella Divina Commedia citando direttamente la fonte; le case sono denominate infatti Meschite, termine arabo che significa casa e moschea.
Gli elementi che Dante prende dal Libro della Scala non si esauriscono con il Purgatorio; in Paradiso è presente una concezione araba che anche San Tommaso chiama metafisica della luce di origine araba. Questa consiste nell’attribuzione della luce a Dio (claritas) e dell’impossibilità per gli esseri umani di poter vedere la luce divina in quanto accecante.
Sia la luce divina, che l’impossibilità di poter vedere Dio risalgono al Libro della Scala, e sono descritte citando ancora una volta la fonte: Quando non ho più potuto vedere cogli occhi l’ho sentita nel cuore la presenza di Dio. Per poter vedere anche solo indirettamente Dio bisogna vedere la luce riflessa in qualcosa: per Dante sono gli occhi di Beatrice. Il secondo senso, dopo la vista, che Dante ha trattato in modo affine agli arabi è l’udito, e dunque la musica prodotta dalla rotazione in circolo dei cherubini. Il canto degli angeli si unisce alla luce.
Un’ulteriore prova dello scambio tra la Corte di Alfonso decimo e Dante, sempre attraverso la mediazione di Brunetto Latini, riguarda l’unicità con la quale entrambi trattano l’episodio della Torre di Babele, che risulta differenziarsi per uno specifico dettaglio rispetto al racconto narrato nella Bibbia. Nel De vulgari eloquentia Dante e nella Historia General Alfonso decimo il Savio, parlano di confraternite che parlano lingue diverse (confusio linguarum, gli uomini non si capiscono più) in seguito al crollo della torre di Babele. Nella Bibbia questo concetto delle confraternite viene tralasciato non essendo, secondo i cristiani, un tentativo di spiegare l’origine delle lingue, bensì esclusivamente la severa punizione impartita da Dio a causa dell'hybris umana.
Sempre nel De Vulgari, Dante propone un’interessante riflessione sulla lingua e in particolare sulla logica formale, parlando dei dialetti italiani. Studiando gli aristotelici radicali, Dante conosce gli universali linguistici cioè quegli elementi che sono comuni a tutte le lingue. Analizzando ciascun dialetto Dante dimostra che gli universali linguistici sono assenti in qualsiasi dialetto e parlata e che, per poter parlare di universali, bisogna per forza attingere al linguaggio poetico, caratterizzato proprio dai simplicissima signa (detti prima principia nel contesto della logica dei filosofi medievali) ovvero gli universali linguistici. Per tale ragione Dante crea lo stil novo, il linguaggio poetico formale che è funzionale per comunicare a se stessi e di se stessi. Questo concetto sarà fondamentale per la teoria moderna degli universali linguistici, e peraltro allude a un concetto fondamentale per la poesia: l’universalità del linguaggio di cui si serve.
Commenti
Posta un commento