COMMENTI/ANALISI CAPITOLI DEL PRINCIPE dal V al XXI
CAPITOLO V
Come si devono governare gli Stati o i principati che, prima della conquista, vivevano secondo le proprie leggi.
Andrea C., Luca
Il capitolo V del trattato spiega come si debbano governare gli Stati o i principati che, prima della conquista, vivevano secondo le proprie leggi. Il capitolo si apre presentando tre opzioni che un principe può scegliere per governare su uno stato appena conquistato, ovvero distruggerlo, andarci a vivere di persona, o ancora istituire un gruppo di pochi governanti lasciando lo stato sopravvivere secondo le sue precedenti leggi, limitandosi semplicemente a ricevere un tributo. Quanto al metodo ritenuto più efficace e brutale, ossia una vera e propria politica di annientamento, lo si può studiare per via di alcuni esempi:
Gli Spartani tennero Atene e Tebe, creandovi uno Stato di pochi: nientedimeno le perderono. I Romani per tenere Capua, Cartagine, e Numanzia, le disfecero, e non le perderono.
L'esempio dimostra, anche senza che l'autore esprima una preferenza specifica, quanto la politica distruttiva sia più efficace, per quanto riguarda l'obiettivo che s'intende conseguire, che lasciare un gruppo di altri uomini al comando dello stato in questione. Il discorso volge poi all'indagine dei motivi che spingono gli stati a ribellarsi: l'aspirazione a essere liberi e la volontà di recuperare vecchie usanze.
E chi diviene padrone di una città consueta a vivere libera, e non la disfaccia, aspetti di essere disfatto da quella; perchè sempre ha per refugio nella ribellione il nome della libertà, e gli ordini antichi suoi, li quali nè per lunghezza di tempo, nè per beneficii mai si scordano.
Machiavelli avverte chi s'impadronisca, come principe, di una città avvezza alla libertà a non esitare a annientarla, dato che il fuoco della libertà si esprime in incontenibili ribellioni, come pure la memoria di antichi ordinamenti è un fortissimo alimento per l'opposizione al nuovo sovrano.
Nel caso in cui gli stati oggetto di conquista fossero già precedentemente comandati da un principe, e magari la casata si sia estinta e sopraggiunga per questo una conquista esterna, la situazione è più semplice, in quanto i cittadini sono già abituati a quel tipo di governo.
Ma quando le città o le provincie sono use a vivere sotto un Principe, e quel sangue sia spento, essendo da una parte use ad ubbidire, dall’altra non avendo il Principe vecchio, farne uno intra loro non si accordano, vivere libere non sanno.
Il non saper vivere libere caratterizza quindi delle società che difficilmente o mai s'indurranno alla ribellione, sicché comandarle sarà comunque operazione più agevole anche per un principe nuovo. Infine Machiavelli conclude ancora con un riferimento alle repubbliche:
Ma nelle Republiche è maggior odio, più desiderio di vendetta, nè le lascia nè può lasciare riposare la memoria dell’antica libertà; talchè la più sicura via è spegnerle, o abitarvi.
Le repubbliche, che come risulta dall'inizio del trattato non sono oggetto specifico d'indagine, sono permanenti fonti di ribellioni, dato che in esse prospera, alimentandosi anche di memoria, il valore della libertà. Ne consegue, è la conclusione maliziosa, che o le si distrugge oppure le si sceglie per abitarvi (ma, nel secondo caso, che ne sarebbe del principe?).
CAPITOLO VI
De’ Principati nuovi, che con le proprie armi e virtù si acquistano.
Andrea C., Luca
Gli uomini camminano quasi sempre su sentieri già battuti; quasi sempre agiscono per imitazione; ma è difficile seguire esattamente le vie già seguite da altri e limitarsi ad imitarli, stante la differenza di situazioni e non essendo possibile avere le stesse capacità di chi si imita.
È così che si apre il capitolo VI, in cui Machiavelli afferma che per diventare un principe è necessario imitare gli esempi di grandi uomini del passato. Questi esempi includono per cominciare il biblico Mosè, personaggio di cui non c’è molto da dire, in quanto più che un principe è un mero esecutore degli ordini divini, anche se dovette comunque avvalersi e riconoscere una circostanza favorevole, ossia trovare il popolo d'Israele schiavo ed oppresso dagli Egiziani e guidarlo; il secondo esempio è storico, trattando del persiano Ciro, il quale dovette riconosce e cogliere l'occasione di trovarsi al comando del popolo persiano scontento della dominazione dei Medi, a loro volta indeboliti dal lungo periodo di pace, per poter affermare il suo dominio. Quanto a Romolo, esempio storico-leggendario, gli servì una catena di coincidenze (dalla nascita da una Vestale all'uccisione del fratello) per arrivare a realizzare il destino di fondatore di Roma; così pure per Teseo e altri mitici e storici fondatori non si trattò che di sfruttare un'occasione che diede agio proprio a loro di mostrare virtù indiscutibili nel comando.
Ed esaminando le azioni, e vita loro, non si vedrà che quelli avessino altro dalla fortuna, che l’occasione, la quale dette loro materia di potervi introdurre quella forma che a lor parse; e senza quella occasione la virtù dell’animo loro si saria spenta, e senza quella virtù l’occasione sarebbe venuta invano.
Machiavelli sottolinea che la virtù è certo la chiave per diventare un principe, ma che anche la fortuna ha un ruolo importante, poiché fornisce le opportunità per metterla in mostra. Inoltre, Machiavelli sostiene che la presenza fisica del principe nello stato, se è costretto ad avere altri stati, può aiutare a mantenere il nuovo principato. Tuttavia, l'eccezionale virtù è l'elemento principale che ha permesso a questi grandi uomini del passato di diventare da condottieri a governanti e di nobilitare anche i loro popoli. Coloro che seguono queste vie virtuose, acquisiscono il potere e la gloria e vengono ricordati come grandi principi nella storia.
Il capitolo si conclude, dopo questa rassegna di grandi personaggi, con uno minore ma egualmente significativo: il tiranno di Siracusa Ierone, che, da privato cittadino, venne scelto dagli abitanti oppressi della sua città per diventarne la guida: e fu di tanta virtù ancora in privata fortuna, che chi ne scrive dice, che niente gli mancava a regnare eccetto il Regno. Costui spense la milizia vecchia, ordinò la nuova, lasciò le amicizie antiche, prese delle nuove; e come ebbe amicizie e soldati che fussero suoi, potette in su tale fondamento edificare ogni edificio; tantochè egli durò assai fatica in acquistare, e poca in mantenere.
Come dire che la scientia della politica, la capacità di governare bene, può anche dipendere totalmente da un'indole individuale conforme a tale attività e che si può quindi ritrovare in un privato cittadino, così come nel discendente di una illustre dinastia.
CAPITOLO VII
De’ Principati nuovi, che con forze d’altri e per fortuna si acquistano.
Raffaele, Riccardo
Machiavelli, per cominciare, sottolinea come sia più complicato riuscire a mantenere un potere ottenuto grazie all’azione di un altro (in quanto precario perché soggetto all’arbitrio altrui o alla volontà della sorte), rispetto a una posizione conquistata fin dall'inizio grazie all’applicazione della propria virtù. L’autore si concentra dunque sul caso di Cesare Borgia, che appartiene alla tipologia dei principi che hanno ottenuto il loro potere per fortuna e non per virtù. Il duca di Valentino, nonostante non sia riuscito a mantenere ciò che in sorte gli era toccato, ha esercitato infatti tutta la virtù in suo possesso per far fronte agli eventi (in particolare la sua risolutezza nello spegnere le ribellioni). Il fallimento del Valentino è dovuto, secondo Machiavelli, alla fortuna divenuta a un certo punto avversa, riferendosi alla morte del padre (e papa) Alessandro e alla malattia di Cesare Borgia stesso, ma anche a un errore da lui compiuto, cioè aver permesso che si procedesse all’elezione di Giulio II al papato, dopo la morte del Borgia. Vale la pena leggere direttamente il passo in cui Machiavelli riporta evidentemente una conversazione avuta con il duca di Valentino, che sintetizza appunto gli ostacoli che si frapposero a un pieno successo della sua dominazione, per ottenere la quale si era condotto, fino a quel momento, in modo egregio:
Ed egli mi disse, ne’ dì che fu creato Iulio II, che avea pensato a tutto quello che potesse nascere morendo il Padre, e a tutto aveva trovato rimedio, eccetto che non pensò mai in su la sua morte di stare ancora lui per morire. Raccolte adunque tutte queste azioni del Duca, non saprei riprenderlo, anzi mi pare, come io ho fatto, di proporlo ad imitare a tutti coloro, che per fortuna e con l’armi d’altri sono saliti all’imperio. Perchè egli avendo l’animo grande, e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimente; e solo si oppose alli suoi disegni la brevità della vita di Alessandro, e la sua infirmità.
CAPITOLO VIII
Di quelli che per scelleratezze sono pervenuti al Principato.
Riccardo e Raffaele
A proposito delle scelleratezze di cui alcuni si servono per arrivare a possedere un principato, Machiavelli spiega che, se un principe non è né virtuoso né fortunato, necessariamente deve tentare il tutto per tutto per acquisire e mantenere il suo principato, compiendo appunto quelle che comunemente s'intendono come atti scellerati, ovvero delittuosi. L’autore, infatti, propone due esempi, uno ripreso dalla storia antica e uno dalla storia a lui contemporanea. Il primo esempio è rappresentato da Agatocle di Siracusa, il quale ebbe la fama di essere un individuo senza scrupoli. L’autore, infatti, rievoca tale sua sua attitudine al male e rammenta come fosse grazie a virtù militari che ottenne il potere. Avendo il proposito di divenire il signore indiscusso di Siracusa, e vedendo nel senato cittadino e nell'alta aristocrazia un intralcio ai suoi disegni, in comune accordo con il condottiero cartaginese Amilcare, fece radunare tutti gli esponenti della classe senatoria e gentilizia al suo cospetto, come se avesse dovuto comunicare importanti delibere per le quali fosse richiesta l'approvazione degli organi istituzionali; ad un suo cenno, invece, tutti i presenti furono trucidati dai soldati ai suoi ordini. Con un vero e proprio colpo di Stato, dunque, Agatocle prese per sé ciò che né il destino né il talento gli avrebbero concesso. In questo passo Machiavelli inserisce un'osservazione personale, a corredo di questa rievocazione, al fine di non essere frainteso: sono proprio le scelleratezze commesse da Agatocle a impedire di celebrarlo fra gli eccellentissimi uomini:
Perchè se si considerasse la virtù di Agatocle nell’entrare e nell’uscire de’ pericoli, e la grandezza dell’animo suo nel sopportare e superare le cose avverse, non si vede perchè egli abbia ad essere tenuto inferiore a qualsisia eccellentissimo capitano. Nondimeno la sua efferata crudeltà e inumanità, con infinite scelleratezze, non consentono che sia tra li eccellentissimi uomini celebrato.
Il secondo esempio, appartenente alla storia a lui contemporanea, precisamente all'epoca di papa Alessandro VI, è quello di Oliverotto Firmiano, che fu allevato dallo zio materno Giovanni Fogliani, che viveva a Fermo, e affidato poi a Paolo Vitelli affinché percorresse la carriera militare. In poco tempo Oliverotto si distinse per il suo valore e il suo ingegno, e ben presto iniziò a coltivare sogni di gloria e di comando. Decise allora di impadronirsi della città di Fermo e, per ottenere il risultato, si mise in contatto con cittadini insofferenti della loro situazione e pianificò una strategia per ottenere il governo sulla città. Scrisse quindi allo zio affinché lo ricevesse e si preparò ad arrivare con un folto accompagnamento, precisamente cento cavalli di suoi amici e servitori. Alloggiato e accolto dallo zio, Oliverotto attirò sia lui sia tutti gli esponenti del governo cittadino in una trappola, uccidendoli tutti, per poi impadronirsi, come aveva pianificato, del potere sulla città di Fermo. La conclusione della sua vicenda è peraltro fulminea: formidabile nell'organizzare la via scellerata che lo conduce a ottenere il suo risultato, viene però ingannato da uno più spregiudicato di lui. Val la pena leggere direttamente l'intero paragrafo che condensa quest'ultima parte:
Dopo il quale omicidio montò Oliverotto a cavallo, e corse la terra, ed assediò nel palazzo il supremo magistrato; tantochè per paura furono costretti ubbidirlo, e fermare un governo, del quale si fece Principe. E morti tutti quelli che, per essere malcontenti, lo potevano offendere, si corroborò con nuovi ordini civili e militari; in modo che in spazio di un anno che tenne il Principato, non solamente egli era sicuro nella città di Fermo, ma era diventato formidabile a tutti li suoi vicini; e sarebbe stata la sua espugnazione difficile, come quella di Agatocle, se non si fusse lasciato ingannare da Cesare Borgia, quando a Sinigaglia, come di sopra si disse, prese gli Orsini e Vitelli, dove, preso ancora lui, un anno dopo il commesso parricidio, fu insieme con Vitellozzo [capitano della milizia dove Oliverotto si era addestrato, prima sotto la guida di Paolo Vitelli e poi, alla morte di quest'ultimo, sotto Vitellozzo] il quale aveva avuto maestro delle virtù e scelleratezze sue, strangolato.
La parte conclusiva del capitolo contiene un interessante distinguo: la crudeltà può essere usata bene o male. Ricade nel primo caso la crudeltà alla quale si ricorra occasionalmente, e che si smetta di praticare così che poi, sul lungo periodo, se ne veda il beneficio sui sudditi. Le crudeltà usate male sono invece che quelle che aumentano nel corso del tempo. Machiavelli ammette possa avere un'utilità compiere tutte le crudeltà necessarie in una volta sola per conquistare il potere, acciocchè assaporandosi meno, offendino meno; li beneficii si debbono fare a poco a poco, acciocchè si assaporino meglio. E deve sopra tutto un Principe vivere con li suoi sudditi in modo che nessuno accidente, o di male, o di bene, lo abbia a far variare; perchè, venendo per li tempi avversi la necessità, tu non sei a tempo al male; ed il bene che tu fai, non ti giova, perchè è giudicato forzato, e non grado alcuno ne riporti.
Capitolo X
In che modo le forze di tutti i Principati si debbino misurare.
Stefano, Alessandro Ga.
Sono qui presi in esame i principati nuovi, cioè quelli fondati o conquistati da un singolo individuo, e la loro difendibilità. Machiavelli afferma che ci sono due modi per mantenere questi principati: tramite virtù e tramite fortuna. La virtù si riferisce alla saggezza e alla giustizia con cui il governante esercita il suo potere, o meglio ancora al valore militare, e secondo questo aspetto la guerra è perciò l'attività prediletta del principe. La fortuna, invece, è la capacità di sfruttare opportunità favorevoli e di superare ostacoli imprevisti. Machiavelli sostiene che un governante che dipenda solo dalla fortuna non avrà un regno duraturo, mentre uno che dipenda solo dalla virtù potrebbe non accedere nemmeno al potere. Infatti, secondo l'autore, il governante ideale deve possedere entrambe le qualità. Inoltre, mantenere un principato nuovo è più difficile che mantenerne uno vecchio, poiché gli abitanti del territorio conquistato potrebbero resistere e i vicini potrebbero invadere, e per questo consiglia quindi di essere pronti a ricorrere alla forza.
Machiavelli valuta il potere di ogni tipo di principato e discute se i principi siano in grado di difendersi da soli o abbiano bisogno di aiuto, e inoltre aggiunge anche che coloro i quali sono al comando di molti uomini e in possesso di molti soldi, e che quindi possono costituire un esercito valido, sono in grado di difendersi da soli, mentre quelli che non possono permettersi una campagna militare avranno sempre bisogno di aiuto. Nel caso in cui un principe non possa o non riesca a difendersi da solo, l’autore incoraggia a fortificare la loro città, ad ignorare il resto del paese e a trattare bene i loro sudditi. In questo modo, gli avversari saranno scoraggiati dall'attaccare, e il popolo sarà meno incline a ribellarsi. Machiavelli cita ed esamina varie civiltà antiche, come i Macedoni con Alessandro Magno, oppure i Romani con il loro esercito imbattibile, e paesi della sua contemporaneità come la Germania e le sue città, che godono di grande libertà e sono ben fortificate. Queste riescono sia a nutrire il popolo sia a prepararsi militarmente, rendendole difficili da conquistare. Machiavelli sostiene quindi che un principe con una città ben fortificata, e che non si fa odiare dai suoi sudditi, non deve temere di essere attaccato perché un governante potente e coraggioso sarà sempre in grado di superare le difficoltà e proteggere i suoi sudditi.
Anche nel caso di un assedio imponente, accompagnato da distruzione dei territori circostanti da parte del nemico, un principe che si sia assicurato la fiducia dei propri sudditi non ha nulla da temere: trascorso il momento di crisi per la perdita dei territori, la cittadinanza continuerà ad avere fiducia in lui, che potrà attendere il momento propizio per riprendersi.
CAPITOLO XII
Quante siano le spezie della milizia, e de’ soldati mercenari
Stefano, Alessandro Ga.
Capitolo XV
Cose per le quali gli uomini, e specialmente i principi, sono elogiati o criticati.
Camilla, Giacomo, Lorenzo
Il capitolo XV del Principe propone una descrizione veritiera dei comportamenti privati e pubblici che il principe è tenuto ad avere nell’azione di governo. Machiavelli dichiara la sua volontà di trattare la realtà concreta delle cose e di non seguire la fantasia, alla quale sono ricorsi alcuni scrittori che hanno studiato il medesimo argomento, ovvero hanno scritto in astratto quali dovrebbero essere le qualità di un principe. Il suo obiettivo invece è quello di trattare la verità effettuale delle cose, senza lasciarsi fuorviare dall’immaginazione, per cui prende le distanze dall'analisi politica precedente, che si è espressa in utopie, descritta in sintesi come repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero, dando consigli pratici al principe per mantenere il potere e non causarne la rovina ovvero la perdita.
L’autore successivamente asserisce, procedendo a un'elencazione di vizi e virtù piuttosto ampia, che gli esseri umani sono molto diversi tra loro, provvisti di qualità buone e cattive in modo vario, nonché tendenzialmente inclini al male, sicché, per quanto sia auspicabile, è irrealistico pensare che in un sovrano si possano riunire solo virtù. L'elencazione delle diverse qualità che possono essere attribuite ad un principe è condotta da Machiavelli ricorrendo a coppie antinomiche (1) di aggettivi e puntualizzando che un sovrano dovrebbe mostrare solamente le qualità positive, ma dal momento che non è cosa possibile, a causa della natura malvagia dell’uomo, egli dovrà essere in grado di utilizzare entrambe a seconda delle circostanze.
Machiavelli si sofferma sull’etica politica, inerente alla gestione dello Stato da parte di un Sovrano, e di come quest’ultimo debba evitare di esporre la sua immagine a critiche che possano danneggiarla: Et etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali e’ possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e, seguendola, sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e, seguendola, ne riesce la securtà e il bene essere suo. Tale posizione dell’autore verrà più avanti rielaborata nel concetto di ragion di Stato da Giovanni Botero (2) e altri autori del tardo Cinquecento, durante un periodo ricco di difficolta nell’ambito culturale e politico della Controriforma.
1 Contraddittorio
2 Giovanni Botero, gesuita attento lettore di Machiavelli, è l’autore della Ragion di Stato, trattato inerente all'insieme delle priorità attinenti alla sopravvivenza e sicurezza dello Stato, che possono indurre un decisore politico a giustificare un'azione illecita.
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Capitolo XVI del Principe
Della generosità e della parsimonia.
Lorenzo, Camilla, Giacomo
Il capitolo XVI prosegue con il tema generale enunciato da Machiavelli nel paragrafo precedente, ovvero i comportamenti del principe, trattato in dettagli precisi. In questo caso l’argomento discusso sono le due qualità che a un vero principe conviene avere, dimostrando di essere in grado di utilizzarle nel modo giusto e nel momento adatto di fronte alla societas.
Quando tratta della generosità, l’autore differenzia due casi importanti: quando essa viene utilizzata in modo tale che il principe venga temuto, e quindi portandolo ad un suo danneggiamento, oppure impiegata in modo virtuoso, come deve essere per continuare a ottenere apprezzamento. Per venire riconosciuto come un principe generoso dalla societas, dato che è necessario dar mostra di sontuosità, occorre onerare il popolo con tante tasse e pensare soprattutto alla gestione finanziaria dello stato “E però, a volersi mantenere infra li uomini el nome del liberale, è necessario non lasciare indrieto alcuna qualità di suntuosità; talmente che, sempre uno principe cosí fatto consumerà in simili opere tutte le sue facultà; e sarà necessitato alla fine, se si vorrà mantenere el nome del liberale, gravare e’ populi estraordinariamente et essere fiscale, e fare tutte quelle cose che si possono fare per avere danari.” Comportandosi in tale maniera, è normale incorrere in odio e disprezzo. Questo porta ad evidenziare le prime difficoltà in questa carica politica. Il principe, dunque, non può permettersi di essere definito misero, avaro, come era già stato annunciato nel capitolo precedente “E questo è che alcuno è tenuto liberale, alcuno misero (usando uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera di avere, misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo)”, ma deve affrontare la situazione, poco piacevole dal suo punto di vista, di evitare l’avarizia e sapere che, solo con il tempo, verrà considerato liberale.
Machiavelli, per far comprendere meglio al lettore che cosa intenda con la situazione di miseria (nell'accezione precisata) del principe, si collega a eventi storici e personaggi assai famosi, come papa Giulio II che si era servito della sua fama di liberalità per giungere al papato, oppure il re di Francia, che non impose nessun dazio, o ancora il re di Spagna che, se non fosse stato un risparmiatore, non avrebbe potuto cimentarsi in tutte le imprese che gli si riconoscono.
Il punto è che un principe deve saper essere liberale o avaro a seconda dei casi e delle circostanze. La liberalità si deve manifestare pienamente quando egli non faccia uso di risorse sue o dei sudditi, ma frutto per esempio di rapine e saccheggi compiuti in guerra. Viceversa, non gli conviene essere liberale di sostanze sue e nemmeno, in maniera eccessiva, dei sudditi, che in questo caso lo prenderebbero in odio. Conviene quindi che, una volta conclusa la fase di liberalità alimentata da proventi esterni, il principe appaia agli occhi dei suoi sudditi misero, condizione che in sé non è considerabile positiva (come ha sostenuto in altre occasioni), ma in questa particolare lo diventa, in quanto preferibile a essere ritenuti rapaci. Quest'ultimo giudizio, se diventa dominante nella percezione collettiva, può infatti trasformarsi addirittura in un motivo di perdita del potere da parte del principe.
CAPITOLO XVII
Crudeltà e misericordia, e se è meglio essere amati che temuti o
piuttosto temuti che amati.
Alessandro Gi. , Martina
Machiavelli cerca di trovare un equilibrio tra due variabili che possono
determinare il destino di un principato a partire dalla nascita di
quest’ultimo: crudeltà e misericordia.
Un eccesso da una parte e dall’altra può risultare fatale per un
principe, ancor prima del suo principato. Nelle prime righe viene esaminato
l’eccesso di misericordia, che confluisce in perdita di credibilità nei
confronti dei sudditi che possono eventualmente insorgere. Come spesso accade
nel Principe, Machiavelli passa all'esemplificazione, volta a sostenere
con maggior vigore le sue argomentazioni. Cesare Borgia, uomo politico
contemporaneo di Machiavelli, viene utilizzato come chiaro esempio di eccesso
di misericordia che è sfociato nel mancato intervento durante l’insurrezione di
Pistoia. All’esempio di Borgia si contrappone l’amara sententia
della fondatrice di Cartagine, Didone, che essendo a capo di un principato
neonato comprende bene la difficoltà nel mantenimento del potere nei primi
giorni di un nuovo insediamento:
Res dura et regni novitas me talia cogunt moliri, et late fines custode
tueri.
[Trad.: la difficile situazione e il regno appena costituito mi
costringono a fare tali cose, e a difendere i confini con molti difensori,
Eneide, I, 563-4].
Da queste due esemplificazioni Machiavelli deriva l'affermazione che un principe non
debba farsi spaventare dall’epiteto crudele, essendo talvolta necessario
per il mantenimento del controllo sulla condotta dei cittadini. Segue una
considerazione di carattere psicologico sull’umano e sul conflitto tra Amore
e Crudeltà, evidentemente personificati. L’ideale, quasi utopico per il
principe, sarebbe quello di far coesistere le due variabili in egual misura,
riconoscendo tuttavia la quasi impossibilità di tale equilibrio e quindi
prediligendo un principe che incuta timore rispetto a uno solamente amato dal
suo popolo. L’autore sottolinea la debolezza del legame amoroso che in
situazioni di pericolo l’uomo è ben propenso a scindere rispetto al timore
delle conseguenze di un'eventuale insurrezione nei confronti di un principe
crudele. Tuttavia, se da un lato l’amore può risultare quasi irraggiungibile,
l’importante per un Principe è non provocare l’astio nei suoi cittadini in
seguito ad un uso improprio della sua crudeltà quale potrebbe essere una contraddizione
nell’applicazione delle proprie leggi.
Nelle righe seguenti l’autore passa a una ulteriore specificazione del potere del
principe, nella situazione in cui si trovi a capo di un’armata, in cui
riemergono precedenti considerazioni declinate tuttavia in maniera differente.
Le dinamiche in un esercito sono infatti ben diverse rispetto a quelle attive
in una società in pace: la bilancia deve pendere in direzione della crudeltà,
piuttosto che in quella della clementia. Immancabilmente la sua tesi è
supportata da esempi, tra i quali troviamo quello del condottiero cartaginese Annibale,
in grado di compiere le sue imprese grazie all’alone di paura che circondava la
sua persona all’interno dei ranghi del suo esercito, tant’è che,
indipendentemente dalla Fortuna, buona o cattiva, i suoi uomini non hanno mai
nemmeno concepito l'idea di disertare.
Ben diversa la situazione di
Scipione l’Africano, condottiero romano che, a parità di perizia tecnica, è stato
tuttavia troppo clemente, tanto da
suscitare la ribellione nelle sue legioni, portando così i suoi avversari
politici ad infamarlo in Senato, chiamandolo corruttore della Romana
milizia, e minando dunque la sua autorità e persino l'autorevolezza.
Da tutte queste considerazioni, proprio come la morale di una
favola, anche se di morale (secondo i parametri comuni) c’è ben poco, Machiavelli conclude esprimendo, come
suo solito, il succo del suo discorso:
Conchiudo adunque, tornando all'esser temuto ed amato, che amando gli
uomini a posta loro, e temendo a posta del Principe, deve un Principe savio
fondarsi in su quello che è suo, non in su quello che è d’altri; e deve
solamente ingegnarsi di fuggir l'odio, come è detto.
CAPITOLO XVIII
Come i principi devono
mantenere la parola data.
Alessandro Gi., Martina
La tesi presentata sin dalle prime righe
è che l’onestà sia un lusso che il principe non sempre può permettersi: capita infatti che per poter rimanere al
potere occorra essere astuti e sleali.
Con tono sentenzioso, Machiavelli
esprime l’idea che la selezione per così
dire naturale dei principi prediliga coloro che prescindono dalle decisioni
moralmente accettabili rispetto a chi basi la propria condotta sulla
lealtà.
Machiavelli propone una volta di più una
distinzione dicotomica rispetto alla quale il potere si possa configurare. Il
principe può decidere di utilizzare la forza o le leggi; la prima è
caratteristica degli animali, la seconda dell’uomo. Idealmente il principe
dovrebbe essere in grado di bilanciare le due, come accade nella figura mitica
del Centauro Chirone, metà bestia metà
uomo, che, stando alla mitologia greca, fu precettore di eroi del calibro
di Achille, come Machiavelli tiene a precisare.
Segue un'ulteriore dimostrazione
comprensibile dall’osservazione dei comportamenti animali; quasi come un
etologo ante litteram, ma in realtà allineandosi con la tradizione favolistica esopica, Machiavelli individua
nel leone e nella volpe due
caratteristiche che, se combinate insieme, possono determinare una specie
ideale.
La volpe, dotata di furbizia, è in grado
di sfuggire alle trappole (i lacci), ma è vulnerabile agli attacchi dei
nemici (i lupi); al contrario il leone possiede una grande forza,
inutile nei confronti della trappola, ma essenziale per scacciare i
nemici.
Essendo adunque un Principe necessitato
sapere bene usare la bestia, debbe di quella pigliare la volpe e il lione;
perchè il lione non si defende da’ lacci, la volpe non si defende da’ lupi.
Bisogna adunque essere volpe a cognoscere i lacci, e lione a sbigottire i lupi.
Da un'analisi di stampo psicologico
procede una considerazione sull'onestà e sulla relatività della parola data.
Spesso infatti si è soliti promettere e non rispettare la promessa data: non
tutti gli uomini infatti sono buoni. Un sistema basato sull’onestà, che il principe
potrebbe eventualmente adottare, si rivela quindi vulnerabile a causa della
presenza anche solo di un singolo disonesto e tristo.
Capita spesso che l'astuzia della
volpe possa portare a risultati soddisfacenti per il principe al potere, Ma
è necessario questa natura saperla bene colorire, ossia bisogna saper usare un linguaggio che lasci spazio
a più interpretazioni e nel quale si possa celare del non detto che
nasconde insidie, utilizzabili a piacimento dal principe nel momento del
bisogno.
A questo punto s’inserisce un esempio storico: quello di papa Alessandro
VI, padre di Cesare Borgia, grande conoscitore della mente umana e di come
questa si possa ingannare facilmente attraverso l’abilità oratoria che prevede giuramenti.
Machiavelli sottolinea un dettaglio che può pur apparire contraddittorio
rispetto alla tesi sino ad ora sostenuta, ma che invece risulta essenziale far
emergere per comprendere a fondo la natura del principe. È sufficiente che il
principe abbia la consapevolezza di cosa significhi apparire forti e astuti,
mentre esserlo effettivamente risulta poco rilevante ai fini pratici. Il
principe deve poi poter essere veloce nel comprendere e adattarsi agli eventi, rispetto ai quali deve poi produrre
sempre una risposta che tenga conto di furbizia e accuratezza delle parole
usate, di modo che i cittadini, ascoltando, reputino il loro principe un soggetto
onorevole, onesto e vicino alla religione (a vederlo e udirlo, tutto pietà,
tutto integrità, tutto umanità, tutto religione).
Quest'ultimo rilievo permette all'autore
di introdurre un ultimo importante concetto che tiene sempre conto di
un'analisi psicologica-comportamentale. Al popolo poco interessano i mezzi con i
quali il principe detiene, mantiene o acquista il potere; quello che
veramente fa la differenza è l’apparenza che il principe restituisce ai
cittadini, i quali difficilmente andranno a ricercare qualcosa che vada di là
da questa, approfondendo le motivazioni di chi li guida.
Quand'anche ci fosse qualcuno di più
intelligente, capace cioè di comprendere la vera natura del principe, verrà
schiacciato dalle opinioni de’ molti. Machiavelli comprende bene la
necessità di fornire un'esemplificazione per quest’ultimo concetto e per farlo
utilizza questa volta un personaggio noto a tutti nella sua epoca. L’autore
infatti fa riferimento a Ferdinando d'Aragona ( Principe di questi
tempi, il quale non è bene nominare) che, predicando pace ed onestà,
è riuscito a fare solo il contrario. Quando scrive questo, Machiavelli ha
impresse le persecuzioni che Ferdinando, detto il Cattolico, ha condotto implacabilmente contro la nobiltà ostile o ancora contro gli ebrei convertiti, avvalendosi
di strumenti feroci quali il Tribunale dell’Inquisizione.
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Capitolo XIX
Che si debbe fuggire l’essere disprezzato e odiato.
Andrea T., Davide
In questo capitolo, avendo già trattato dei tipi di principati, ossia come si ottengono e le qualità più importanti che un principe deve avere, Machiavelli si sofferma su come mantenerne uno, e in special modo su come non farsi disprezzare o odiare.
Il principe deve innanzitutto cercare di dare l'immagine di un capo forte e risoluto, con opinioni irrevocabili, in modo che la gente lo rispetti.
Il passaggio seguente propone una suddivisione in due categorie di pericoli per il principe, esterni ed interni, questi ultimi espressione del malcontento del popolo, foriero di possibili congiure, soffermandosi su come queste nascono e come si sviluppano. A proposito di questo tema ,cita il principe di Bologna Annibale Bentivoglio, vittima di congiura, dopo la cui morte il popolo ha vendicato il suo omicidio uccidendo i membri della congiura e esprimendo la volontà di continuare a essere governato dalla famiglia Bentivoglio, proprio per la stima che nutriva nei suoi confronti. Prima di passare a un altro argomento, conclude con una massima con la quale può essere riassunto brevemente tutto ciò che si legge in questo capitolo: Conchiudo adunque, che un Principe deve tenere delle congiure poco conto, quando il popolo gli sia benivolo; ma quando gli sia inimico, ed abbilo in odio, deve temere di ogni cosa e di ognuno.
Con ciò esprime il concetto per cui un principe non deve preoccuparsi di congiure, almeno fino al momento in cui il suo popolo non diventi suo nemico: a quel punto, doverosamente e per il suo bene, deve temere di tutto e tutti.
Avere il popolo dalla sua parte è un potente deterrente contro le congiure, poiché chi congiura crede di poter soddisfare il popolo con la morte del principe, ma non avrà il coraggio di agire se crede di offendere il popolo, per paura delle conseguenze.
Un principe deve trovare il giusto equilibrio nell’accontentare sia il popolo che i potenti. A questo proposito cita il re di Francia, che pur di non prendere decisioni che potrebbero causare contrasti con le due fazioni ha istituito un terzo giudice, per non far ricadere le responsabilità su di lui. Da ciò l’autore trae un'ulteriore sentenza sull'importanza dell'opinione che il popolo ha del principe e su come un principe deve far prendere le decisioni di un certo calibro ad altre persone, sempre per curare soprattutto l'apparenza: li Principi debbono le cose di carico fare sumministrare ad altri, e quelle di grazie a lor medesimi. Di nuovo conchiudo, che un Principe debbe stimare i grandi, ma non si far odiare dal popolo.
Da questo punto in poi, il resto del capitolo è dedicato a un'analisi del governo, del carattere e della condotta degli imperatori romani che hanno regnato in un periodo di tempo che va dal 161 al 238 circa d. C. In quegli anni, uno dei problemi principali consisteva nell’importanza che aveva l'esercito e nel riuscire ad atteggiarsi e a prendere decisioni tali da accontentare sia il popolo che quest’ultimo, date le differenti esigenze dei due. Sebbene gli stati moderni non abbiano più delle milizie di tale importanza, come in secoli in cui l'impero romano doveva preoccuparsi della difesa dei propri confini dalle sempre più imponenti invasioni barbariche, tutti questi esempi sono funzionali a supportare, con l'analisi di esperienze storiche, il suo ragionamento.
Capitolo XXI
Come si debba governare un Principe per acquistarsi riputazione.
Andrea T., Davide
Il capitolo XXI entra nel merito del comportamento di un principe quando voglia acquisire una buona reputazione, e di quanto sia importante, per favorirla, compiere grandi imprese, che siano guerre o anche scelte di governo interne che dimostrino la sua forza e la sua saggezza. A proposito di questo, cita Ferdinando D'Aragona, all'epoca re di Spagna, raccontando brevemente la sua storia e come sia divenuto celebre per le sue gesta fuori dall'ordinario.
Nel passaggio seguente, l’autore si sofferma su un ulteriore problema che il principe deve affrontare: la presa di posizione, quando egli è vero amico, o vero nimico, nei confronti di un altro principe.
Machiavelli analizza singolarmente ogni caso, arrivando alla conclusione che la scelta di essere nemico è decisamente vantaggiosa rispetto all'astensione da un posizionamento. Su questo tema cita Antioco III, sovrano seleucide del III secolo a.C., e racconta brevemente la storia antecedente a quella che è stata la guerra romano-siriaca (192-188 a.C.) facendo capire quanto scegliere tra l’imparzialità e la presa di posizione netta sia effettivamente una questione di grandissima importanza da sempre.
Un principe non dovrebbe neanche mai associarsi, se non costretto, a un altro più potente di lui per attaccare un terzo, come ben insegna la rovina dei veneziani dovuta all'associazione con la Francia contro il duca di Milano.
È ovvio che un principe non può sempre sapere con assoluta certezza quale sia la scelta più giusta da fare, e ciò è riassumibile nella sentenza che recita la prudenza consiste in saper cognoscere la qualità degli inconvenienti, e prendere il manco tristo per buono; ciò significa essere a conoscenza dei pro e dei contro delle opzioni a disposizione, e fare solo a quale punto la scelta meno dannosa.
L'autore conclude il capitolo esortando un principe a prendersi cura del suo popolo, dimostrando umanità e generosità, ma senza venir meno alla sua autorevolezza e dignità di principe.
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