ANALISI TESTI BAROCCHI CORRETTE

 Andrea C., Raffaele

A proposito del Sonetto enigmatico

Galileo Galilei viene indirizzato dalla famiglia verso gli studi di medicina. Iscritto all’università di Pisa nel 1583, i suoi interessi si orientano però principalmente verso la matematica. Per introdurre il componimento in questione, occorre premettere che, tra il XVI e il XVII secolo, l’enigmistica si fa spazio tra i poeti di corte e i letterati, per esempio sotto forma di indovinelli. La funzione dell’indovinello è spesso quella di irretire il lettore, attrarlo e confonderlo al tempo stesso, tramite l’utilizzo di termini particolari e fuorvianti così da indurlo a scoprire un significato celato a una prima lettura. La disciplina in questione diviene  un genere letterario tra i più rinomati, e annovera molti cultori. Tra questi spicca l’opera del Malatesti, La sfinge, la quale  influenza anche Carlo Alberto Dati, autore di  una celebre Lettera sugli enimmi;  negli stessi anni Michelangelo Buonarroti il Giovine, detto l'Impastato, legge all'Accademia della Crusca alcune originali frottole enimmatiche, accompagnate da un breve discorso della natura e dell’uso di tal componimento. L’arte dell’enigma conquista anche Galileo Galilei, che è noto per il suo sonetto sull’enigma scritto sulla scia dell'entusiasmo  derivato dalla lettura dei versi del Malatesti. Il Sonetto enigmatico  di Galileo  comporta un  quesito che impronta di sé l'intero componimento: Chi è il mostro?

Questo non è né un arpia, né una sirena o una chimera: il mostro è l’enigma stesso. Si può infatti sostenere che la risoluzione di questo quesito non sia scritta in altro luogo se non nel titolo medesimo:  è questa  peculiarità a rendere il sonetto enigmatico di Galilei  un'ottima variazione su un tema che, come si è visto, la poetica barocca ama coltivare, almeno come divertissement. D'altronde, alla risoluzione dell’indovinello,  si può giungere solamente dopo aver applicato non poco ingegno all'intendimento del testo, che abbonda di indizi accuratamente, ingegnosamente, celati ovvero espressi in forme allegoriche. Quando si legge, ai versi 7-8 

Spesso di cacciator dietro ho una schiera, 

Che de’ miei piè van rintracciando l’orme

Galilei sta rappresentando  l’enigma come una preda che viene cacciata, e gli indizi come le  orme da essa lasciate. Ancora,  nell’ultima terzina,  si legge  con l’apparir del giorno,  da intendersi forse come l'approssimarsi della luce ovvero della soluzione dell'indovinello. Essa si potrebbe ritenere palesata quanto Galilei scrive

E le mie membra disunite lasso, 

E l’esser perdo con la vita, e il nome

intendendo che, essendo l’indovinello giunto alla fine, si è sciolto proprio come avviene con la perdita della vita o con il diradarsi delle tenebre al sopraggiungere del giorno. Anche il mostro si dilegua, l'enigma, una volta risolto, non esiste più.

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Martina e Camilla

L’Enigma di Galileo Galilei

L’Enigma è un componimento di Galileo Galilei, composto durante gli ultimi anni della sua vita. Ormai confinato nella sua villa ad Arcetri, Galileo si predispone ad attività disparate, tra le quali figura una prosecuzione degli studi scientifici, che manifesta senz’altro la sua necessità di non desistere mai dalla ricerca del vero.

Tra una ricerca e l’altra, lo scienziato e scrittore  si dedica anche a comporre  sonetti enigmatici, in cui si manifesta forse un desiderio di fuga dal  metodo tradizionale e canonico (non a caso sarà lo stesso Galileo a formularne uno nuovo) di analisi del reale, dando spazio all’estro di cui si compiacciono  gli scrittori dell’epoca barocca, animati da uno spirito che si spinge in direzione della sovversione, della bizzarria e che non di rado sfiora una visione relativistica del mondo, in cui può accadere che ciò che appare non sia  o ciò che è sembri non essere. Il barocco è infatti intriso di illusionismo, pur tenendo ancora salde alcune fondamenta, che risalgono alle auctoritates classiche (da Aristotele a Orazio) e ai trattati di retorica, fondamentali per il poièin artistico. 

Così, non del cannocchiale e dei mezzi propri della scientia si serve il  Galileo che si diletta di poesia enigmatica, ma  di artifici retorici, che per loro natura  possono contribuire a conoscere qualche senso  della vita che sfugga a un'osservazione condotta con i metodi comuni e accreditati. 

Il componimento, intitolato Enimma,   è dedicato ad Antonio Malatesti, alto prelato  appassionato di studi umanistici, che nel 1640 aveva già pubblicato una raccolta di cento componimenti con il titolo La Sfinge, Enimmi. Tali produzioni incuriosiscono e interessano lo scienziato, che decide così di comporre un indovinello, poi pubblicato da Malatesti in un’ulteriore raccolta di cento componimenti, nella quale presenta Galileo in questo modo: 

Il signor Galileo Galilei, avendo letta la prima parte dei miei Enimmi, non isdegnò di abbassar la sua famosa penna con la piacevolezza del verso, mandandomi il presente sonetto con esortarmi a far la seconda parte.

Prerogativa del componimento enigmatico è quella di prestarsi a  molteplici chiavi di intendimento, che si cimentano per scoprire  messaggi sempre più profondi. Un po' come condurre un’analisi al microscopio, ricorrendo a  progressivi ingrandimenti.  Galileo sceglie la forma del sonetto, rispettandone la metrica e la struttura. Il componimento è infatti costituito canonicamente da due quartine e due terzine.  Nell’indovinello figurano numerose personificazioni, tra cui campeggia il mostro,  che allude contemporaneamente alla realtà e all’enigma. La struttura ritmica è rispettata, ma si rende anche veicolo di comunicazioni funzionali all'intendimento dell'enigma proposto: ciò risulta palese in occasione dell'utilizzo di un  enjambement in corrispondenza dei v. 11-12 (tosto l’alma da me sen fugge, come sen fugge il sonno all’apparir del giorno), dove, con la complicità di un'allitterazione della lettera effe, che restituisce il senso di continuità grazie al suono che produce, seguita da  un’ulteriore allitterazione della lettera elle (lasso, l’esser, l’nome), il poeta si diverte a promuovere un effetto funzionale al genere enigmatico: fingere di lasciar trapelare, ma  poi subito occultare, la risposta all'indovinello medesimo. 

Tipico dell’indovinello è in effetti il ricorso a un linguaggio in grado di occultare, ma anche suggerire, misteri e al tempo stesso di essere estroso e sorprendente. L’indovinello di Galileo richiama dall'inizio l'attenzione su una creatura ignota, il mostro, che è pure la voce narrante dell’enigma, nonché la possibile soluzione dello stesso. Il mostro si descrive come una creatura difforme, diversa da qualunque altra, alla maniera di alcune fra  quelle incontrate da  Dante in inferno. Non si tratta in effetti né di un Arpia, né di una Sirena, e neppure di una Chimera, mostro appartenente alla mitologia greca con corpo e testa di leone e una seconda testa di capra sulla schiena, diventata poi nel linguaggio comune espressione di illusione e di fugacità. Il mostro in questione si descrive  come un essere al quale non è possibile accostare per analogia alcuna creatura presente sulla Terra né in terra, in aria, in acqua è alcuna fiera, appunto in quanto  difforme da ogni altro vivente (non ho (parte) che sia conforme). Sembra dunque che questo specifico mostro sia una sorta di creatura indefinita e non conoscibile e afferrabile attraverso i sensi. A ben vedere si tratta allora proprio di una chimera, questa volta intesa nel suo significato astratto  di pura illusione, sorta di entità effimera che allude a quello che la mente umana è in grado di figurarsi senza afferrarne mai l'essenza.  Ma l’uomo (il lettore), ancora insoddisfatto e inappagato, proprio come un cacciatore, corre dietro alla sua preda nel tentativo di scorgere particolari nascosti, orme, o qualche minima traccia di certezza in grado di promuovere finalmente  uno svelamento, di  permettere l'identificazione del mostro

Egli risiede nelle tenebre, nel buio. Occulto dunque anche il suo ambiente naturale, tanto che l’essere umano, che continua ad affannarsi nel tentativo di conoscerlo, cerca di oltrepassare un limite invalicabile: la reale natura del mostro sfugge inesorabilmente alla presa della ragione. Questa impossibilità di conoscenza razionale del mostro  è resa metaforicamente con l’ombra (le tenebre) che svanisce alla luce del giorno (chiaro lume) o ancora col sogno, che si conclude al risveglio senza che l’uomo abbia il potere di governarlo (sen fugge il sonno all’apparir del giorno).

A un primo intendimento appare dunque chiaro che il mostro sia l’enigma stesso: esso figura come  titolo del componimento, eppure resta  inconoscibile fino in fondo per quanto sempre sottoposto a analisi da parte dell’essere umano che, frustrato, ma allo stesso tempo eccitato e incuriosito dallo scioglimento dell’indovinello, prosegue incessantemente nella ricerca di una risoluzione, moltiplicando gli interrogativi. Alla fine il mostro del quale non si sapeva nulla, se non quanto fosse inconoscibile, è  svelato. L’indovinello si sciogli e il mostro, che parla e riempie di sé il componimento,   cessa di esistere (l’esser perdo con la vita e ‘l nome). Nel momento in cui all’indovinello si trova una risoluzione, questo perde dunque la sua essenza e il suo ruolo, diventando la sua stessa soluzione.  Si determina quindi una sorta di frattura interna al sonetto, che già nei versi 11-12, con la presenza dell'enjambement  (tosto l’alma da me sen fugge, come sen fugge il sonno all’apparir del giorno) aveva dimostrato di essere distante da un canone collaudato.  Allo stesso tempo, la risoluzione dell’indovinello che si identifica con il titolo stesso manifesta una caratteristica peculiare dell’Enigma, che è quella di essere un po’ come un gioco orchestrato dall’autore, che magari finisce anche per farsi beffe di  un lettore convinto di aver trovato la soluzione definitiva, mentre la conclusione è piuttosto un'aporia. 

Un secondo livello di intendimento, può permettere di sviluppare una ulteriore riflessione esistenziale.  Riprendiamo la metafora secondo cui l'enigma è il mostro di cui l'essere umano non si stanca mai di cercare le tracce, con la finalità di stanarlo, una volta per tutte. Connaturata all'essere umano è in effetti una volontà di controllo, che la nostra specie ha via via finalizzato al dominio, o almeno all'esplorazione di  tutte le discipline, dalla scienza alla letteratura, dall’arte figurativa alla filosofia. Interrogarsi sempre, alimentare nuove curiosità è essenziale per l’essere umano che, come l’Ulisse del XXVI canto dantesco, insoddisfatto se si trova in stato di quiete, si imbarca diretto verso l’ignoto.  In una stessa direzione, nonché animato da uno stesso spirito, è il processo che denominiamo astrazione, la quale comporta un distanziamento da tutto ciò che è ormai accreditato e comunemente accettato, per promuovere scoperte adeguate a sempre nuove necessità interiori. È questo in effetti anche lo spirito del barocco: trovare nuove modalità con le quali colmare il vuoto creatosi a seguito dell’introduzione di un nuovo paradigma conoscitivo, del quale lo stesso Galileo è in effetti responsabile. Che sia dunque questa una modalità diversa con la quale lo scienziato ha voluto dire, anzi, imprimere per l’eternità con la poesia, ciò che non poteva asserire per via della strenua opposizione del Tribunale dell’Inquisizione, che l'ha confinato infatti ad Arcetri proprio per aver egli dato corso all’hýbris di sostenere   un nuovo paradigma in contraddizione con il sistema aristotelico-tolemaico. Il vuoto, l’enigma, il sonetto stesso  o, in una sola parola,  la realtà viene così a manifestarsi come l’ente del quale l’essere umano ricerca incessantemente un senso, suddividendola in minute componenti (le varie scienze, con i corrispettivi campi d'indagine) per poter indagare  applicando un metodo paziente  e che coinvolge pienamente la sensibilità umana. L’essere umano che si prefigge di trovare una risposta è afflitto da un senso di sereno tormento, ossimoro volto a rendere evidente, oltre che l’accostamento di due termini inconciliabili tra loro, anche il senso della metafora della vita, enigma irrisolto ovvero, tornando al punto di partenza del sonetto, mostro differente da qualunque altro.

Mostro son io più strano e più difforme

che l’Arpia, la Sirena e la Chimera;

né in terra, in aria, in acqua è alcuna fiera

ch’abbia di membra così varie forme.


Parte a parte non ho che sia conforme:

più che l’una sia bianca e l’altra nera;

spesso di cacciator dietro ho una schiera,

che dei mie pie’ van rintracciando l’orme.


Nelle tenebre oscure è il mio soggiorno

ché, se da l’ombre al chiaro lume passo,

tosto l’alma da me sen fugge, come


sen fugge il sonno all’apparir del giorno,

e le mie membra disunite lasso,

e l’esser perdo con la vita e ‘l nome.

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Alessandro Gi., Giacomo

Bella schiava

Il sonetto Bella schiava rientra nella  raccolta di liriche risalente al 1614, intitolata La Lira, ed è stato composto da uno degli artisti più rappresentativi del periodo barocco, Giovan Battista Marino, da cui deriva il cosidddetto  marinismo.  Il poeta di origini napoletane, considerato evidentemente uno dei massimi esponenti della poesia barocca, ha viaggiato tutta la vita, particolarmente in Italia, tra le varie corti, ed è stato fonte di ispirazione  per altri poeti del periodo, per via del suo estro compositivo, della perizia tecnica e di una  capacità immaginativa figlia appunto dell'epoca di cui stiamo trattando. Peculiare, a questo proposito, il ricorso al cospicuo armamentario di figure retoriche che la lingua fornisce, e che vengono piegate alle nuove esigenze comunicative, nonché la rivisitazione in chiave del tutto personale di forme poetiche tradizionali.  In  questo caso è particolarmente evidente come abbia radicalmente trasformato l'ormai antica  forma del sonetto amoroso petrarchesco, rivisitandolo in una prospettiva conforme con lo spirito barocco, pur senza trasformare l'operazione in mero esercizio di stile. 

Nera sì, ma se’ bella, o di Natura

fra le belle d’Amor leggiadro mostro.

Fosca è l’alba appo te, perde e s’oscura

presso l’ebeno tuo l’avorio e l’ostro.


Or quando, or dove il mondo antico o il nostro

vide sì viva mai, sentì sì pura,

o luce uscir di tenebroso inchiostro,

o di spento carbon nascere arsura?


Servo di chi m’è serva, ecco ch’avolto

porto di bruno laccio il core intorno,

che per candida man non fia mai sciolto.


Là ’ve più ardi, o sol, sol per tuo scorno

un sole è nato, un sol che nel bel volto

porta la notte, ed ha negli occhi il giorno.

Il rispetto della tradizione si manifesta a colpo d'occhio: nessuna trasgressione metrica, il sonetto è da manuale, composto com'è da  due quartine e due terzine in endecasillabi ricorrendo a rime  alterne o incrociate. In ogni strofa, figure retoriche di stile e di contenuto veicolano intendimenti inconsueti, tali da rendere appunto il componimento ben discosto da un filone tradizionale di poesia amorosa.  Nel descrivere l’oggetto del suo amore, Marino disattende del tutto le regole descrittive classiche, che prescrivono un'idealizzazione  della donna amata, a cominciare dalla scelta eccentrica del soggetto, che è una   serva di carnagione scura,  non a caso subito ossimoricamente denominata leggiadro mostro, da intendere, per cominciare,  nel senso di eccentrico assoluto. Già nei primi due versi possiamo infatti notare come il poeta faccia ampio ricorso all'ingegno nell'utilizzare  due figure retoriche apparentemente dal senso comunicativo opposto, ovvero l'enjambement, che lega i primi due versi e conferisce loro scorrevolezza, e l’iperbato, che separa due parole  fortemente connesse per via di  regole sintattiche; le due parole separate sono  natura e mostro, la quale ultima racchiude   un doppio senso, a seconda che la si riconduca al suo già citato significato letterale  o a quello mitico: è il primo, peraltro, a fondare l' ossimoro creato attraverso l'accostamento all'aggettivo leggiadro. Nel resto della quartina viene sciorinata una gamma di effetti sia fonici che stilistici: l’allitterazione è un tipico artificio musicale sfruttato ampiamente  e virtuosisticamente dal barocco, al fine di generare stupore nel lettore almeno tanto quanto le ricercate antitesi (fosca è l'alba appo te),  le metonimie e le anastrofi. La seconda quartina, sotto forma di appello al lettore, insiste nuovamente sulla luce emanata dalla sua amata, servendosi questa volta di una figura retorica molto raffinata come il polisindeto con parallelismo, che ha la funzione di rallentare il ritmo della poesia, e di predisporre un crescendo musicale che culmina con l'interrogativa retorica. A proposito di questa, val la pena notare come sia portatrice di una rivendicazione di originalità da parte del poeta nella scelta del soggetto, mai trattato in questi termini nella poesia precedente. In continuità con questo rilievo, la prima terzina richiama l’attenzione sullo stato sociale dell'amata, che predispone a un inatteso capovolgimento valorizzato attraverso un ulteriore  ossimoro,  servo di chi m’è serva, attraverso il quale prende forma  un capovolgimento di ruoli tra chi è padrone, dal punto di vista sociale, e chi invece è signora  del cuore del suo innamorato. Un'ulteriore accentuazione del tema si ha con l’iperbato, utilizzato nuovamente nel parlare dei lacci che tengono stretto il cuore del poeta, impotente di fronte alla bellezza  della sua amata. Tale bellezza viene ancora una volta resa oggetto del gioco stilistico del poeta nell’ultima terzina, nella quale possiamo trovare l’ultima figura retorica utilizzata a seguito di un paragone tra questa bellezza luminosa e il sole, cioè il bisticcio o paronomasia, volutamente inserito per disorientare il lettore e promuovere la sua meraviglia per  l’ingegno che detta la  scelta di ogni singolo termine.

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Andrea T., Riccardo 

Bella schiava 

Nera sì, ma se’ bella, o di Natura

fra le belle d’Amor leggiadro mostro.

Fosca è l’alba appo te, perde e s’oscura

presso l’ebeno tuo l’avorio e l’ostro.


Or quando, or dove il mondo antico o il nostro

vide sì viva mai, sentì sì pura,

o luce uscir di tenebroso inchiostro,

 o di spento carbon nascere arsura?


Servo di chi m’è serva, ecco ch’avolto

 porto di bruno laccio il core intorno,

che per candida man non fia mai sciolto.


 Là ’ve più ardi, o sol, sol per tuo scorno

un sole è nato, un sol che nel bel volto

 porta la notte, ed ha negli occhi il giorno.

Bella schiava è un sonetto di endecasillabi rimati secondo schema ABAB-BABA-CDC-DCD.

Scritto dal poeta barocco Giovan Battista Marino, è contenuto nella Lira,

raccolta pubblicata nel 1614.

Il componimento si apre con la descrizione della bellezza della donna: compare in posizione privilegiata, alla fine del secondo verso, l'ossimoro leggiadro mostro, in sé in grado di riassumere l'essenza del contrasto sorprendente, per la sua originalità, che in questi primi  versi è posto anche attraverso la congiunzione avversativa ma, inserita per istituire l'inedito nesso fra il colore della pelle (scuro) e la bellezza. La trovata si inserisce perfettamente nella sensibilità barocca, volta a privilegiare la rappresentazione di donne sorprese in momenti non convenzionali, o decisamente quotidiani. In questo caso, addirittura (per i tempi si tratta di una scelta straordinaria, ossia fuori dall'ordinario) la donna in questione è una schiava di origini africane, scura di carnagione, in contrasto quindi con canoni di bellezza che rendono omaggio alla chiarità della pelle. La scelta eccentrica, dunque, corrisponde a un omaggio al gusto barocco, molto sensibile nei confronti dello strano e dell’insolito

I vari enjambements presenti, nella prima quartina e nei versi 5-6, 9-10, 13-14,

possono mettere in discussione il collegamento logico-sintattico, ma creano un senso di fluidità,

come l’effetto di fluidità permanente che si manifesta in una composizione come

Le metamorfosidi Ovidio. Si tratta di un artificio che l’autore adopera nuovamente per provocare la curiosità del lettore

e farlo soffermare sul concetto trattato, ossia la bellezza della donna. Secondo l'estetica e

la poetica barocche, il lettore deve sfruttare l’ingegno per intendere al meglio il testo, a sua volta

frutto dell'ingegno del poeta. 

L’enjambement in questo caso viene quasi spezzato dall’iperbato che separa il complemnto di specificazione

di natura da leggiadro mostro, termini che appartengono a campi semantici opposti (ciò

che è naturale si oppone a mostruoso), ma con cui in realtà riesce a sottolineare

l’estrema bellezza della donna servendosi anche dell’ossimoro leggiadro mostro

accostato all’iperbato. Le antitesi del verso 3 e 4 rafforzano ulteriormente il concetto di bellezza.

Nella quartina successiva, l’autore pone una domanda, che risulta in realtà retorica,

accentuando la bellezza della donna grazie a ulteriori antitesi, quali luce uscir di tenebroso

inchiostro, di spento carbon nascere arsura.  

La prima terzina si dimostra essere quasi una dichiarazione esplicita alla donna:

attraverso un ossimoro afferma che è servo di chi a sua volta gli è serva

e che porta nel cuore un laccio bruno,data la carnagione della donna, che una mano candida, quindi una donna bianca, non

sarà mai in grado di slegare.

Nell’ultima terzina l’autore utilizza una figura retorica, caratteristica della poetica di Dante

ma non solo, ossia l’apostrofe. Con o sol spezza il discorso e aggiunge enfasi

attraverso l’esclamazione, rivolgendosi direttamente al lettore.

Le allitterazioni delle lettere “v”, “i” ed “s” nel verso 6 e della “r” ed “s” nei versi 3-4, 7-8 e 10

conferiscono musicalità al componimento.Marino, dal qual discende il marinismo, sceglie di adottare una forma classica, il sonetto,

e arricchisce l’espressione poetica con mille espedienti, una serie di ricercatezze

ingegnose, come da tradizione barocca per raggiungere l’effetto di meraviglia.

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Lorenzo, Alessandro Ga.

Beltà Crudele di Giambattista Marino

L’autore

Giambattista Marino è stato un poeta italiano del periodo barocco, noto per il

suo linguaggio ricco di immagini e metafore. Tra le sue opere più importanti ci

sono L'Adone e La Lira

Analisi della poesia

Beltà Crudele di Giambattista Marino è una poesia che appartiene al filone

barocco della letteratura italiana, è un breve componimento di nove versi senza una struttura metrica fissa.


E labra ha di rubino

ed occhi ha di zafiro

la bella e cruda donna ond'io sospiro.


Nei primi tre versi, il poeta descrive la bellezza della donna amata utilizzando convenzionalmente

pietre preziose per simboleggiare le sue labbra (rubino) e i suoi occhi

(zaffiro). La scelta di queste pietre, pur nella convenzionaliltà, vale a  sottolineare

l'aspetto prezioso e inaccessibile della donna, che definisce bella e cruda, ovvero affascinante e crudele al tempo stesso, adombrando con quest'ultimo aggettivo, la possibilità ch'ella sia, più che amante, nemica.


Ha d'alabastro fino

la man che volge del tuo carro il freno,

di marmo il seno e di diamante il core.


In questi versi, il poeta continua a descrivere il corpo della donna utilizzando

altre pietre preziose: l'alabastro, il marmo e il diamante. Si tratta di una scelta stilistica

che mira a suscitare sorpresa e meraviglia: si delinea infatti una figura femminile connotata

come dura, fredda, refrattaria all'amore anche più di una statua inanimata. Interessante in particolare

l'immagine della mano che volge del tuo carro il freno, ovvero che manovra il carro del sentimento amoroso, fintamente posta ad attenuare l'impatto della rappresentazione, che viene invece ulteriormente

indirizzata a una visione della donna come creatura altera e insensibile. 



Qual meraviglia, Amore,

s'a' tuoi strali, a' miei pianti ella è sì dura?

Tutta di pietre la formò natura.


In questi ultimi versi,  il poeta si rivolge direttamente ad Amore, convenzionalmente evocato come divinità, chiedendo quale meraviglia ci sia nel fatto che la donna sia così insensibile alle sue lusinghe e ai suoi pianti. La risposta all'indovinello è ingegnosa, consentendo di ricapitolare quanto è andato delineandosi nei versi precedenti:  la natura ha creato la donna interamente di pietre, sicché è certo impossibile figurarsi una relazione con una simile creatura. 

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Stefano, Davide

Amabile Stefano - Davide Martinelli

Giovan Battista Marino, Amori di pesci, da La Lira


Oggi, lá dove il destro fianco ad Ischia

rode il Tirren col suo continuo picchio,

vidi conca con conca e nicchio e nicchio

baciarsi, e come a l’un l’altro si mischia;

e la biscia del mar, che pur s’arrischia

venirne infin colá presso il crocicchio,

ove del sole al luminoso spicchio

la chiama l’angue innamorato e fischia.

E vidi ancor d’amor l’algente anguilla

arder fra l’acque, e gir di grotta in grotta,

i lor maschi seguendo, occhiate e salpe.

Né però vidi mai, perfida Lilla,

te fatta a me cortese, e, se non rotta,

men dura, del tuo cor la rigid’alpe.


Giovan Battista Marino è stato uno dei più grandi poeti italiani del Seicento e massimo esponente della poesia barocca in Italia.

Tra le poesie più famose della raccolta La Lira vi è Amori di pesci, una composizione che evoca 

la storia d'amore tra questi comuni abitanti del mare. L’amore è il tema centrale della poesia, ma viene

proposto in modo insolito, sorprendente (in base ai dettami della poetica barocca) attraverso  la descrizione di situazioni amorose che si creano in quell'ambiente piuttosto freddo e anche poco frequentato dagli esseri umani (soprattutto all'epoca) come le profonde acque dei mari. Il componimento si avvale di un linguaggio artificioso, con l’uso di parole rare e sofisticate, che conferiscono un tono elevato alla poesia, la quale  si esprime attraverso metafore e analogie raffinate. Il poeta fa infatti un uso sapiente di immagini naturali e di una prosa altamente figurativa. Nella poesia si possono notare elementi di stile barocco, come il ricorso frequente ad antitesi, la presenza di allitterazioni e di altri  giochi fonici. Il ricorso a questi tecnicismi non va tuttavia a detrimento dell'unità

dell'insieme: l'estro di Marino consiste proprio nella capacità di creare atmosfere suggestive, come richiedeva un'estetica che voleva affrancarsi dai contenuti moralistici e pedagogici, per proporsi come

un'arte il cui scopo principale fosse il diletto del pubblico.


Oggi, lá dove il destro fianco ad Ischia

rode il Tirren col suo continuo picchio,

vidi conca con conca e nicchio e nicchio

baciarsi, e come a l’un l’altro si mischia;


e la biscia del mar, che pur s’arrischia

venirne infin colá presso il crocicchio,

ove del sole al luminoso spicchio

la chiama l’angue innamorato e fischia.


E vidi ancor d’amor l’algente anguilla

arder fra l’acque, e gir di grotta in grotta,

i lor maschi seguendo, occhiate e salpe.


La descrizione naturalistica si concentra inizialmente sull'ambiente prescelto:  un fianco della rocciosa isola d’Ischia, erosa dalle acque del Tirreno. In antitesi vi è da una parte l’isola, minerale ed immobile, dall’altra  la forza del mare, animato ed turbolento. La scena si anima per la presenza di creature marine, intente ad accoppiarsi, come vuole l'irresistibile attrazione amorosa. I versi si concentrano e culminano con l’amore tra una biscia di mare e un serpente:  la biscia del mar viene umanizzata, descritta mentre si dispone ad avventurarsi in una zona rischiosa, in cui battono raggi del sole e in

prossimità della superficie, per incontrare la propria compagna. Così l’uomo è capace di compiere delle imprese impensabili pur di riuscire a unirisi con la propria amata.  A predisporre la conclusione del componimento, la sorpresa d'un altro soggetto erotico del tutto inconsueto: un'algida anguilla che arde d'amore mentre altre specie ittiche  inseguono nelle grotte i loro maschi. L'effetto conseguito è quindi quello di svelare, al di sotto della superficie acquorea e salina, un imprevisto e inatteso pullulare di amplessi.

Infine, però, negli ultimi versi si svela definitivamente il senso comunicativo della poesia: Marino contrappone infatti la tipologia di connubi descritta fino a quel momento alla freddezza del cuore della sua perfida Lilla, il cui cuore  non si è mai piegato alla forza amorosa. L'ultima terzina, dal sentore petrarchesco, manifesta  la consapevolezza di non poter mai arrivare alla donna amata, bellissima ma

irraggiungibile, in quanto arroccata in una totale insensibilità nei suoi riguardi, quasi fosse fatta di materia inanimata. 


FIGURE RETORICHE

ALLITTERAZIONE:

“ove del sole al luminoso spicchio” (v.7)

“arder fra l’acque, e gir di grotta in grotta,” (v.10)

“te fatta a me cortese, e, se non rotta,” (v.13)

ANASTROFE:

“ove del sole al luminoso spicchio” (v.7)

“E vidi ancor d’amor l’algente anguilla arder fra l’acque” (vv.9-10)

“e gir di grotta in grotta, i lor maschi seguendo, occhiate e salpe” (vv.10-11)

METAFORA:

“e, se non rotta, men dura, del tuo cor la rigid’alpe” (vv.13-14) = il cuore della fanciulla viene

paragonato ad una dura pietra.

OSSIMORO:

“d’amor l’algente anguilla arder fra l’acque” (vv.9-10) = opposizione di due termini

contrastanti: caldo e freddo.

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Jitaru Luca, Oliva Francesco              4SA


Giovan Battista Marino nasce a Napoli il 14 ottobre del 1569. Figlio di un giureconsulto, viene avviato sin da giovane agli studi legali benché coltivasse un amore profondo per la poesia. Seguono anni difficili per lui: viene cacciato di casa, diseredato e arrestato. Tuttavia, grazie anche alla fama che stava via via acquistando come poeta, riesce a fuggire, con l’aiuto di suoi illustri protettori, a Roma. 

Qui diventa protagonista della vita culturale della città continuando a comporre poesie, che confluiscono nelle Rime, pubblicate nel 1602 a Venezia.

La sua fama poetica cresce, tanto da essere preso al servizio del cardinale Aldobrandini con il quale compie diversi viaggi negli anni successivi, entrando in contatto con i centri culturali di Bologna, Parma e Ravenna. Nel 1614 pubblica a Torino un’edizione accresciuta delle Rime con il nuovo titolo Lira. Ed è proprio in questa raccolta che troviamo Rete d’oro in testa della sua donna


Porta intorno madonna

lacci a lacci aggiungendo ed oro ad oro,

d’aurea prigion l’aurea sua chioma avolta.  

Alma libera e sciolta 

fra quel doppio tesoro

ove n’andrai, che non sii presa alfine,

s’ella ha rete nel crine e rete è il crine?


In questo madrigale a Madrigale, composto da tre settenari e da quattro endecasillabi, secondo lo schema aBCcbDD possiamo notare come l'autore faccia ampio ricorso a metafore, per descrivere ogni lato della donna da lui amata. Già nei primi versi vediamo come i capelli biondi siano paragonati all'oro, con il quale gareggiano in splendore. Anche i lacci che "imprigionano " le chiome hanno una doppia natura, da un lato quello di trattenere i capelli, e dall'altro imprigionare il cuore dell'autore, creando così una doppia natura per i capelli e la rete.

Sin dalle origini del petrarchismo il tema dei capelli biondi era una sorta di luogo comune, un topos, della poesia lirica. In Petrarca tuttavia la caratteristica dei capelli biondi faceva parte dell’idealizzazione dell’immagine della donna: questo non era isolato rispetto alla figura. Qui invece Marino compie un astrazione: la donna non si vede ma si osservano solo i suoi capelli biondi e la reticella d’oro che li ricopre.

La figura umana nella sua interezza sparisce, si possono solo cogliere una serie di particolari sconnessi che non compongono l’immagine completa. 

Inoltre il gioco metaforico a cui il poeta sottopone il luogo comune dei capelli biondi toglie la carica sensuale e di turbamento che aveva in Petrarca. Infatti mentre quest’ultimo guarda incantato la sensualità dei capelli di Laura, Marino riduce tutto ad un gioco di acutezze e di ingegnosità di un concetto astratto, quello che unisce la rete reale, rappresentata dalla reticella, a quella metaforica dei capelli che catturano come una rete il cuore del poeta.      Non c’è posto per la sensualità.Il sensualismo di Martino sta nella ricerca dei particolari fisici e naturali, ed è quindi sempre distaccato, privo di turbamenti e di partecipazione emotiva


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