SAGGI LIBERI MODULO LEOPARDI 1

 Martina S. , ottobre 2023

Il più poetico vuoto esistente

Analisi del componimento La sera del dì di festa


Poiein, l’arte di creare dal nulla grazie alla parola, è un'arditezza divina con la quale gli artisti si devono misurare qualora l’obiettivo sia quello di creare ciò che altrimenti non sarebbe più, o addirittura non sarebbe. In questa prospettiva, insieme all’arte di padroneggiare lo strumento della parola, si rende altrettanto essenziale l’esercizio dell’immaginazione, facoltà necessaria e allo stesso tempo, vedremo, salvifica. Il poeta tenta di andare oltre il limite del conoscibile e, sconfinando dal reale, giunge alla forma che si accosta meglio all’assoluto. Si perde e si salva al tempo stesso, ma soprattutto, appunto crea.

La sera del dì di festa fa parte della raccolta Canti messa a punto dal poeta Giacomo Leopardi nel 1831. Prima di arrivare alla sua forma definitiva tuttavia, proprio per quella propensione interiore del poeta a ricercare la forma e con essa arrivare all'assoluto, il componimento subisce diversi rimaneggiamenti.


Dolce e chiara è la notte e senza vento,

E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti

Posa la luna, e di lontan rivela

Serena ogni montagna. O donna mia,

5. Già tace ogni sentiero, e pei balconi

Rara traluce la notturna lampa:

Tu dormi, che t’accolse agevol sonno

Nelle tue chete stanze; e non ti morde

Cura nessuna; e già non sai nè pensi

10. Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.

Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno

Appare in vista, a salutar m’affaccio,

E l’antica natura onnipossente,

Che mi fece all’affanno. A te la speme

15. Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro

Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.

Questo dì fu solenne: or da’ trastulli

Prendi riposo; e forse ti rimembra

In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti

20. Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,

Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo

Quanto a viver mi resti, e qui per terra

Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi

In così verde etate! Ahi, per la via

                                                          25.  Odo non lunge il solitario canto

Dell’artigian, che riede a tarda notte,

Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;

E fieramente mi si stringe il core,

A pensar come tutto al mondo passa,

30. E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito

Il dì festivo, ed al festivo il giorno

Volgar succede, e se ne porta il tempo

Ogni umano accidente. Or dov’è il suono

Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido

35.  De’ nostri avi famosi, e il grande impero

Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio

Che n’andò per la terra e l’oceano?

Tutto è pace e silenzio, e tutto posa

Il mondo, e più di lor non si ragiona.

40. Nella mia prima età, quando s’aspetta

Bramosamente il dì festivo, or poscia

Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,

Premea le piume; ed alla tarda notte

Un canto che s’udia per li sentieri

45. Lontanando morire a poco a poco,

Già similmente mi stringeva il core.

La prima versione del 1819 con titolo La sera del giorno festivo viene pubblicata nella rivista Il Nuovo Raccoglitore nel 1826, insieme ad altri componimenti che prendono il nome di Idilli. Se l’ordine con cui gli Idilli sono trascritti nell’autografo napoletano, ultima pubblicazione de I Canti, ha valore cronologico, la Sera del dì di festa dovrebbe essere stata scritta dopo L’Infinito, Alla luna e Lo spavento notturno e prima del Sogno e della Vita Solitaria.

La scelta del nome idillio rende evidente cosa leghi Leopardi all’antico: dal greco εἰδύλλιον (eidyllion, diminutivo di éidos, immagine, quadro) è infatti un antico termine utilizzato soprattutto in età ellenistica per indicare componimenti brevi, generalmente costituiti da descrizioni paesaggistiche.

Teocrito, poeta vissuto tra il IV e il III secolo a.C., produce un gran numero di idilli nei quali domina l’atmosfera bucolica, generata dalla descrizione di un mondo pastorale in cui la natura viene esaltata per bellezza e armonia. Come spesso accade con la poesia, da un modello in grado di far scaturire consonanze interiori nasce una generazione intera (talora anche più d'una) di poeti pronta a rimaneggiare il topos letterario e a renderlo persino migliore. Questo è il caso della ripresa che avviene da parte del poeta forse prediletto di Ottaviano Augusto, a distanza di un paio di secoli da Teocrito: nei dieci componimenti riuniti nelle Bucoliche (42-39 a.C.) Virgilio ripropone il modello teocriteo rivisitando, con la sua sensibilità (senso del dolore che travalica i confini rassicuranti dell'idillio) la componente pastorale. Ed è così che da una forma inizialmente stilizzata, nasce una raffinata sensibilità in grado di valicare secoli e arrivare sino a Leopardi che, solo dopo aver compreso a fondo la matrice antica, utilizza il termine idillio per rispondere alla necessità interiore di esprimere sentimenti affezioni, avventure storiche del suo animo.

Quest’ultima affermazione del poeta rende conto dell’espressa volontà di andare oltre il limite della descrizione paesaggistica, per attingere a ciò che non potrà mai essere raggiunto nel mondo reale: l’infinito.

Dopo la pubblicazione del 1826, gli Idilli verranno pubblicati insieme a Canzoni, Versi e testi scritti tra il 1828 e il 1830 nel volume che reca il nome complessivo Canti di chiara ascendenza petrarchesca (il rimando è, in particolare, al Canzoniere). Da Petrarca Leopardi eredita lo studio volto al raggiungimento di una perfezione formale nonché la cura rivolta alla scelta della parola che deve essere in sé profonda e risonante. La poesia di Leopardi, per quanto, soprattutto nei primi scritti, rimandi a un senso di vago e indefinito, non è dunque da intendersi come poesia spontanea o di istinto.

Leopardi non è di certo uno spirito che tende a trovare nell’antico tutte le risposte alle esigenze interiori; a riprova di questo il componimento La sera del dì di festa, come tutti gli altri Idilli del primo periodo, presenta una struttura metrica libera, in questo caso costituita da 46 endecasillabi sciolti, ovvero versi di 11 sillabe metriche non legati da rime, come imporrebbe una cieca ottemperanza alla poetica neoclassica. 


Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo. E in quel momento dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla quale era certo di ritornare subito dopo, com’è seguito, m’agghiacciai dallo spavento, non arrivando a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo, delle quali cose un anno addietro si componeva tutto il mio tempo, e mi faceano così beato non ostante i miei travagli. E in quel momento dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla quale ero certo di ritornare subito dopo, com’è seguito, m’agghiacciai dallo spavento, non arrivando a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo, delle quali cose un anno addietro si componeva tutto il mio tempo, e mi faceano così beato nonostante i miei travagli. (Recanati, 6 Marzo 1820, Lettera a Pietro Giordani)

Le lettere inviate a Pietro Giordani (intellettuale neoclassico e caro amico del poeta), così come gli appunti personali raccolti nel diario intellettuale Zibaldone di pensieri o più semplicemente Zibaldone (di incerta etimologia, significa mescolanza confusa di cose diverse o anche vivanda preparata con molti ingredienti), o ancora il romanzo autobiografico (Vita di Silvio Sarno) concepito sul modello de I dolori del giovane Werther di Goethe, sono strumenti fondamentali per il poeta che, grazie alle caratteristiche comunicative di queste forme espressive prosastiche, chiarifica dinamiche interiori fuggevoli, attimi d'intuizione che, se non immortalati in queste testimonianze, rischierebbero di dissolversi nel nulla per la loro fuggevolezza.

La citazione sopra riportata  risale a una lettera destinata a Pietro Giordani, datata 6 marzo 1820, nella quale Leopardi restituisce appunto prosasticamente il contenuto poetico de La sera del dì di festa e, in particolare, gli stati d'animo, le immaginazioni, che hanno preceduto la composizione della poesia.

Nei primi quattro versi prevale la componente idillica: il poeta ricostruisce la scena di un paesaggio notturno cogliendone in primo luogo dolcezza e luminosità. Risuonano le parole di Omero, tradotte da Leopardi nel Discorso intorno alla poesia romantica:


Sì come quando graziosi in cielo/ rifulgon gli atri intorno della luna,/ e l’aere è senza vento, e si discopre/ ogni cima de’ monti ed ogni selva/ ed ogni torre; allor che su nell’alto/ ogni cima de’ monti ed ogni selva( ed ogni torre; allor che su nell’altro/ tutto quanto l’immenso etra si schiude,/ e vedersi ogni stella, e ne gioisce/ il pastore dentro all’alma.

La restituzione contenutistica del paesaggio si arricchisce: i raggi luminosi della luna danno consistenza alla materia artificiale prima e naturale poi. Gli occhi si soffermano sulla luce che colpisce i tetti, i giardini (gli orti, elementi che vengono immediatamente immortalati dal poeta perché più vicini) e i versanti delle montagne.  

Queste ultime sono illuminate solo in parte, sicché la vista impedisce di andare oltre il limite imposto a un osservatore che non può di certo concedersi il privilegio di spiccare un prodigioso volo verso l’alto.

Data l’impossibilità imposta dal reale, il poeta utilizza il suo personale armamentario retorico. La parola può pur concedere al poeta di attuare quell’innalzamento in direzione di un infinito che diventa indefinito. Leopardi riprende dunque l’espediente dantesco che impone di innalzare materia e forma qualora sia necessario elevarsi un poco di più dalla propria condizione interiore.

Per realizzare una tale impresa è necessaria una meditazione profonda, che il poeta effettua nel suo Zibaldone di Pensieri nel quale indaga quali parole (poeticissime) possano restituire il senso di indefinito:


la molteplicità delle sensazioni confonde l’anima, gli impedisce di vedere i confini di ciascheduna, toglie l’esaurimento subitaneo del piacere, la fa errare d’un piacere in un altro, senza poterne approfondire nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo ad un piacere infinito (La teoria del piacere, luglio 1820, Zibaldone)

Così, la fievole luce notturna diventa un'esplosione di raggi che, per quanto limitati, alimentano l’immaginazione del poeta. Quest’ultimo rompe le catene che lo ancorano alla terra e spicca quel volo così piacevole e in sé poetico.

Tale espediente viene ripreso nel naufragare-dolce de L’infinito e pure in questa Dolce e chiara notte che smette di essere buia nel momento stesso in cui il poeta è pronto a vedere oltre la limitata possibilità imposta dalla vista.

Quanto a costruzione formale poi, è chiara la ripresa del primo verso della canzone CXXVI del Canzoniere di Petrarca (Chiare fresche et dolci acque). L’acqua petrarchesca è per natura chiara e limpida, la notte invece diventa chiara solo dopo che interviene la poetica dell’indefinito.

La notte è insomma buia, statica e in sé (per natura) limitante per i più che si accontentano della prima percezione sensoriale, ma può ben diventare quel luogo ideale a cui l’anima tende qualora sia necessario perdersi nel territorio senza confini esteso nel tempo e nello spazio (1429-1430, Zibaldone).

Esiste tuttavia anche un rapporto di somiglianza tra l’acqua e la notte:


È piacevolissima ancora, per le sopraddette cagioni, la vista di una moltitudine innumerabile, come delle stelle, o di persone ec. Un moto moltiplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un ondeggiamento vago ec., che l’animo non possa determinare, né concepire definitamente e distintamente

Il moto dell’immaginazione ricorda in effetti quello delle onde dell’acqua in grado di adattarsi alle conformazioni del terreno e agli influssi esterni come il vento. Allo stesso modo l’immaginazione è libera nel suo vagheggiamento, ma sa tornare al reale qualora sia necessario rimembrare la condizione dolorosa dettata dal sentimento di solitudine che esclude il poeta dal mondo.

L’apostrofe al verso 4 (O donna mia) introduce una nuova figura, una donna, frutto dell’immaginazione poetica e in quanto tale irraggiungibile. L’apostrofe rimanda al sonetto di Dante contenuto nel XXVI capitolo della Vita Nuova. Anche in tale circostanza, oltre alla consonanza contenutistica (Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia) si presenta una corrispondenza esistenziale. Come Beatrice, sempiterna desiderata, ricordata per l’ultima volta in vita  proprio ne La vita nuova, anche la donna di Leopardi diventa un eterno desiderio.

La descrizione notturna si dilata (versi 5-6) anche dopo questo grido accorato di dolore. La via del borgo è silenziosa e nei balconi una luce fioca si spande. Nel medesimo contesto naturale, nelle stesse condizioni paesaggistiche, si manifesta un inevitabile distanziamento tra la fanciulla e il poeta.

La prima si trova nella sua stanza, dolcemente cullata da un sonno rapido e spontaneo (tu dormi, che t’accolse agevol sonno v.7) senza preoccupazione alcuna che possa provocare alterazioni del sonno, e ancora, senza curarsi minimamente della ferita aperta nel cuore del secondo. Mentre lei dorme, lui è sveglio a contemplare la natura antica e onnipossente (v. 13) che lo ha creato per la sofferenza e che a lui disse: A te nego la speranza, anche la speranza di essere felice e i tuoi occhi non brillino d’altro che di pianto (A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro  non brillin gli occhi tuoi se non di pianto).

Evidente dunque la distanza che separa il poeta dalla fanciulla, esplicitata dall’uso dei pronomi antitetici (tu dormi, tue chete stanze, ti morde, tu dormi: io questo cielo) nonché da quella differenza di trattamento attuata per natura e dalla natura.

Nel dialogo con la natura il poeta enfatizza la componente della privazione. La natura nega al poeta la speranza e nega ancora (anafora) quel particolare tipo di speranza che è connessa col raggiungimento della felicità.

La natura diventa dunque personaggio del componimento, identificata come antica e onnipossente. Il primo termine viene indicato da Leopardi nello Zibaldone come parola poetica, e quindi piacevole, il secondo riconduce al reale e dunque alla potenza pervasiva della natura, alla sua incontrastabile e immane forza.

Tale descrizione esplicita il passaggio dall’ indefinito al vero, dalla poesia alla filosofia. Se non ci fosse quest’ultima non sarebbero possibili le idee universali e, con queste, il problema dell’impossibilità di raggiungerle.

Dopo la triste sentenza della natura il poeta torna al suo vagheggiamento e si immagina nuovamente la fanciulla. Anche in questo dunque ondeggia la penna di Leopardi che non può fare a meno di oscillare tra poesia, forma comunicativa più vicina all’assoluto, e filosofia che, invece, rimanda alla condizione reale dominata dal meccanicismo.

Quella appena trascorsa è stata una giornata di festa e la fanciulla può riposarsi dai divertimenti. È  pur probabile che nel sogno le tornino in mente tutte le persone a cui è piaciuta o ancora le persone che in lei hanno acceso una corrispondenza interiore. Da notare in questa descrizione che, ancora una volta, sono assenti caratterizzazioni fisiche della donna che rimane frutto dell’immaginazione e in sé incorporea. Il perpetuarsi di assenza descrittiva enfatizza la componente universale di questa descrizione: la donna è un generico piacere che non potrà mai realizzarsi nella vita del poeta. Il distacco da quest’ultima rappresenta l’apertura di un varco sempre più grande che separa l’io lirico dalla speranza.

Il poeta è certo di non poter abitare nei sogni della fanciulla e perde quindi persino la speranza di poterci essere. Si domanda dunque quanto ancora debba essere lunga la vita (v. 21-22) e nel porre la questione l’animo si ribella, perché consapevole dell’impossibilità di trovare soluzione alla condanna imposta dalla natura (e qui per terra mi getti, e grido e fremo/ Oh giorni orrendi in così verde etate/). L’apostrofe contiene una metafora: la verde estate è la vita di Leopardi che si trova ancora nell’età  giovanile nel periodo in cui compone l’Idillio.

Nei versi risuona, ancora una volta, una condizione descritta nella prosa da Leopardi e, in particolare, nella lettera indirizzata a  Pietro Giordani del 24 aprile 1820:

Io mi getto e mi ravvolgo per terra, domandando quanto mi resta ancora da vivere.

Questo atteggiamento titanico è una ripresa di Leopardi di un topos letterario presente già nei miti (primo tra tutti il mito di Prometeo). Un tentativo che descrive uno slancio oppositivo di tipo eroico, perché si manifesta quasi in presenza della certezza di non poter raggiungere la vittoria. È un’opposizione che non nasce per il risultato, bensì per una propensione naturale che tende a manifestarsi nella vita di coloro che vivono in maniera così intensa da percepire una alterità insuperabile rispetto a tutti gli altri.

Intanto il tempo continua a scorrere senza lasciare traccia (orma) di nulla. Si sente in lontananza un artigiano cantare, solitario e spensierato; felice per il suo imminente ritorno nella sua povera dimora. Nella mancanza di orme (v. 30) che possano rimanere impresse nel mondo, il poeta si abbandona a un vagheggiamento annichilente che, a differenza dei primi versi, non lascia spazio alla poetica dell’indefinito. È trascorso un giorno di festa e ad esso ne segue uno feriale e il tempo trascina con sé ogni vicenda umana. Seguono interrogative retoriche riferite all’antico:  (Or dov’è il suono/ Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido De’ nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio Che n’andò per la terra e l’oceano?).Persino le imprese degli antichi sono ora nel silenzio e il silenzio (che pure potrebbe essere annoverato tra gli elementi in sé poetici perché concede all’immaginazione di figurarsi infiniti possibili suoni) diventa insostenibile, in quanto annientatore di ciò che in origine possedeva un suono, per altro, tra i più dolci mai esistiti.

Il silenzio della notte diventa un grido di dolore, fuoco che arde tra le pagine degli antichi. Proprio quando sembra che il poeta abbia dunque raggiunto la constatazione della vanità di tutte le cose (come scrive nella lettera a Pietro Giordani del 19 novembre 1819) e che

questa è la miserabile condizione dell’uomo, e il barbaro insegnamento della ragione, che i piaceri e i dolori umani essendo meri inganni, quel travaglio che deriva dalla certezza della nullità delle cose, sia sempre e solamente giusto e vero. (6 Marzo 1820, Lettera a Pietro Giordani)

arriva in soccorso la poetica del vago e dell’indefinito. Il componimento termina infatti con il ricordo dei tempi antichi risalenti alla fanciullezza, età nella quale si aspettava con impazienza il giorno festivo. Quando poi questo era trascorso, il poeta giaceva nel letto angosciato e a tarda notte sentiva, proprio come gli accade ancor in quell'oggi, un canto provenire da lontano che, sempre allo stesso modo, stringeva il suo cuore.

Seppur possa sembrare un’amara constatazione e un ricordo infelice, per il semplice fatto di aver portato la mente al passato, l’immagine riprodotta dal poeta assume forme di pura bellezza perché è la parola, la poesia, ad attuare questa mirabile impresa.

La cura della parola, il dolce suono di quest’ultima, l’uso connotativo che riceve, rende possibile il ricordo di eventi passati che, senza le parole giuste, quelle che connotano e sono circonfuse di aloni, finirebbero per cancellarsi. Il passato, seppur lontano dal presente, assume una coloritura sempre nuova perché in parte reso frammentario dalla memoria e ripreso poi in un momento propizio a distanza di tempo.

Il tempo assume così un ruolo fondamentale, poetico, perché responsabile della creazione dal nulla, cosa che, in effetti, solo la poesia può permettersi di fare.

L’alone, vuoto, che si crea intorno al frammento ricordato è il più poetico vuoto esistente e la manipolazione sempre nuova e sempre diversa di quest’ultimo rende piacevole l’arte d'immaginare, e quindi la vita stessa. In questo senso aveva dunque ragione Calvino nell’asserire che Leopardi, nel suo pessimismo, o forse proprio per il suo pessimismo, era un edonista che grazie alla sofferenza, al non senso, alla constatazione della vanità di tutte le cose, ha trovato l’espediente, le parole, per creare proprio dove tutto era stato distrutto dal reale.

La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico in uno o in un altro, si trova sempre consistere nell’indefinito, nel vago (Recanati 14 dicembre 1828).

***

Alessandro Gi., ottobre 2023


Risentimento, figlio d’affanno



Passata è la tempesta:

odo augelli far festa, e la gallina,

tornata in su la via,

che ripete il suo verso. Ecco il sereno

rompe lá da ponente, alla montagna:

sgombrasi la campagna,

e chiaro nella valle il fiume appare.

Ogni cor si rallegra, in ogni lato

risorge il romorio,

torna il lavoro usato.

L’artigiano a mirar l’umido cielo,

con l’opra in man, cantando,

fassi in su l’uscio; a prova

vien fuor la femminetta a côr dell’acqua

della novella piova;

e l’erbaiuol rinnova

di sentiero in sentiero

il grido giornaliero.

Ecco il sol che ritorna, ecco sorride

per li poggi e le ville. Apre i balconi,

apre terrazzi e logge la famiglia:


e, dalla via corrente, odi lontano

tintinnio di sonagli; il carro stride

del passeggier che il suo cammin ripiglia.


     Si rallegra ogni core.

Sí dolce, sí gradita

quand’è, com’or, la vita?

Quando con tanto amore

l’uomo a’ suoi studi intende?

o torna all’opre? o cosa nova imprende?

quando de’ mali suoi men si ricorda?

Piacer figlio d’affanno;

gioia vana, ch’è frutto

del passato timore, onde si scosse

e paventò la morte

chi la vita abborria;

onde in lungo tormento,

fredde, tacite, smorte,

sudâr le genti e palpitâr, vedendo

mossi alle nostre offese

folgori, nembi e vento.


     O natura cortese,

son questi i doni tuoi,

questi i diletti sono

che tu porgi ai mortali. Uscir di pena

è diletto fra noi.

Pene tu spargi a larga mano; il duolo

spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto

che per mostro e miracolo talvolta

nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana

prole cara agli eterni! assai felice

se respirar ti lice

d’alcun dolor; beata

se te d’ogni dolor morte risana.



Il canto sopra riportato, La quiete dopo la tempesta,  si apre dipingendo, con grande suggestione di suoni e immagini vaghe e indefinite, il quadro di un piccolo villaggio dopo il passaggio di una violenta tempesta, ponendo l’accento sul sentimento, provato dagli abitanti del borgo, di quiete e piacere, successivo all’evento destabilizzante, e per certi versi terrificante, della catastrofe naturale che li porta ad apprezzare la ripresa dei lavori di routine più usati. La seconda parte della poesia, palesemente articolata in due sezioni, rivela lo scopo di quella precedente: un’immagine suggestiva volta a predisporre materiale poetico a un'argomentazione valida a sostegno delle considerazioni filosofiche espresse successivamente, in perfetto stile grande idillio. Leopardi, infatti, con l'intenzione di sollecitare l’interesse del lettore nella direzione del ragionamento che gli preme, inserisce una domanda retorica, che suona così: Sí dolce, sí gradita quand’è, com’or, la vita? Poi affida la sua risposta ai versi che succedono ricorrendo alla formula esaustiva, destinata a diventar quasi proverbiale,   Piacer figlio d’affanno, verosimilmente utilizzabile per riassumere il concetto che il poeta vuole proporre: il piacere dell’essere umano deriva dalla liberazione dal dolore, come sostenuto dagli epicurei e da alcune filosofie orientali. Tuttavia, è nella strofa successiva che emerge il punto focale di quest’analisi, dove l’io lirico leopardiano cela un suo rovello: il risentimento, ovvero una condizione del tutto soggettiva e autoreferenziale,  verso questa condizione apparentemente irrisolvibile che non ha meritato. Il risentito, infatti, tende a escludere una responsabilità rispetto a un male, a un dolore, che ha sempre una causa esterna. A questo si aggiunge il fatto che quella sorta di malata dipendenza che lega il piacere e il dolore (rammentiamo da Werther)  risulta incredibilmente frustrante per uno spirito romantico come quello leopardiano. Il poeta, come conseguenza relativa alla difficile accettazione di questa verità esistenziale, dimostra un atteggiamento cinico, anche ironico, ma mai totalmente rassegnato. Segni di questo risentimento possono essere rintracciati  anche in molti altri testi, come ad esempio nel Dialogo della Natura e di un Islandese, in cui molto esplicitamente la terribile e incombente  personificazione della natura afferma l’ineluttabilità della sofferenza come parte integrante di sé stessa e della vita, mentre quale unica replica all’Islandese, appaiabile in questo all’io lirico del grande idillio in analisi,   che richiede  una vera ragione per giustificare tanta sofferenza inflittagli (a lui in quanto essere umano), sopraggiunge la sua repentina, casuale peraltro, per quanto inserita nel ciclo naturale della vita e della morte,  uccisione. Compaiono infatti due leoni affamati (è una delle ipotesi inserite nel finale, in merito alla sua morte), che si nutrono di lui, ottenendo di sopravvivere un giorno in più. 


 Natura:

Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.

Islandese:

Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?


Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.


Si rimane quindi pur sempre nel solco di un, divertito certo, per via dell’ironia, risentimento nei confronti di una natura che segue suoi cicli e di nient’altro si cura, mentre si accentua anche la percezione di una sorta di beffa sottostante a tutto: l dubbio che non ci sia proprio nessun segreto sublime da svelare, e che la ricerca in sé sia una specie di beffa.  

Quanto alla tematica relativa alla ricerca di un senso esistenziale di ciò che accade agli esseri umani nel corso della vita, e prima di culminare immancabilmente nella morte, nella poesia Canto notturno di un pastore errante dell’asia è sicuramente proficuo prestare attenzione al seguente passaggio:

— A che tante facelle?

che fa l’aria infinita, e quel profondo

infinito seren? che vuol dir questa

solitudine immensa? ed io che sono? —

Cosí meco ragiono: e della stanza


smisurata e superba,

e dell’innumerabile famiglia;

poi di tanto adoprar, di tanti moti

d’ogni celeste, ogni terrena cosa,

girando senza posa,

per tornar sempre lá donde son mosse;

uso alcuno, alcun frutto

indovinar non so. Ma tu per certo,

giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,

che degli eterni giri,

che dell’esser mio frale,

qualche bene o contento

avrá fors’altri; a me la vita è male.


Il pastore, rivolto alla Luna, si chiede se lei, almeno lei che viaggia per le rotte cosmiche, conosca il senso delle sofferenze degli esseri viventi, unica cosa certa nella vita - come ricorda, in quel caso,  con la voce Saffo ne l’Ultimo canto di Saffo: Arcano è tutto fuor che il nostro dolor - conscio di non poter ricevere risposta. Questo  è, nuovamente, un lampante esempio di un riflesso della preoccupazione latente nella psicologia dell’autore. 

Il rifugio da questa preoccupazione latente che Leopardi trova è la fuga verso l’indefinito, la creazione di un’illusione, che, nella sua teoria del piacere, è essenziale per tendere all’infinito. Questo si traduce in poesia nei primi versi de La quiete dopo la tempesta così come nei versi de Il sabato del villaggio, dove però volge  verso il futuro invece che verso il  presente, inducendo all’anticipazione, figlia sicuramente dell’infinito. Le aspettative, tuttavia, come riassume la penultima strofa, sono sempre deludenti rispetto alla realtà, poiché il sabato è l’unico giorno libero di tendere all’infinito, visto che poi, con la domenica, subentreranno tutte le preoccupazioni, a mala pena sedate dal piacere  provato, ormai, il giorno precedente. 


Questo di sette è il più gradito giorno,

Pien di speme e di gioia:

Diman tristezza e noia


Recheran l’ore, ed al travaglio usato

Ciascuno in suo pensier farà ritorno.


Certo, il risentimento non andrebbe coltivato. Dal punto di vista psicologico è una di quelle condizioni dello spirito che assorbono energie e tendono a rendere sgradevoli le relazioni con gli altri e quelle con se stessi. I risentiti, infatti, sono costantemente a caccia di responsabili, ma partono dal presupposto che dalla lista vadano esclusi loro. Tuttavia posso azzardare l’ipotesi che, nel caso di Leopardi, il risentimento di cui pure posso trovare (ho trovato) tracce sia di una specie nobile. Un risentimento che si riscatta da solo, per così dire, perché da individuale si rende universale, tramutandosi quasi in compassione, che, se vista in un’ottica schopenhaueriana, da origine a un sentimento di speranza e fratellanza, antidoto parziale alla sofferenza del vivere, e, quindi,  un’anticipazione dell’ultima evoluzione del pensiero leopardiano, il cui culmine viene raggiunto ne La Ginestra.

***



 

 

 

 

 

 


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