AUDIOLEZIONE, POWER POINT E TESTO MODULI 1-4

POWER POINT

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AUDIOLEZIONE (già su classroom):

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Viste le sue anime multiple, dislocate nel tempo e nello spazio, destinate a vite brevi e vite lunghe, il romanticismo non si può ridurre a una formula unica né si può decretare quando sia nato esattamente. Certo però che anche solo per il nome potente, Sturm und Drang, tempesta e assalto oppure sconvolgimento e impeto, vien da prendere in considerazione che un suo atto di nascita  possa coincidere con la comparsa di questo manipolo di giovani autori, scrittori e filosofi,  che si sono denominati così, gli stürmer, al principio degli anni settanta del Settecento. La letteratura settecentesca, di stampo illuminista nell'impostazione culturale e prevalentemente neoclassica nelle scelte formali, non li soddisfa del tutto, ovvero completamente (per quanto nessuno di loro la rifiuti), e iniziano a cercare altro, a cercare altrove, a dare espressione a sehnsucht, nostalgia e desiderio, con una intensità  che noi abbiamo scelto di lasciar interpretare principalmente da  Johann Wolfgang von Goethe, nato a Francoforte sul Meno nel 1749. Con il suo romanzo epistolare  I dolori del giovane Werther, nei primi mesi del 1774 nasce il primo eroe romantico,  Werther appunto, il cui impatto sulla società del tempo è immediato: in breve  il testo valica i confini della Germania e viene tradotto in tutte le lingue europee, contribuendo così al diffondersi di una  sensibilità che è possibile approfondire nei suoi connotati salienti solo leggendo e analizzando l’opera. L'eroe dello scrittore tedesco rappresenta per il nostro Foscolo, autore di transizione fra neoclassicismo e romanticismo,  un modello su cui variare il suo Jacopo Ortis, nato a circa trent'anni di distanza.  Werther è un giovane appassionato e colto, che si nutre di classicità (Omero è una delle sue iniziali predilette letture, così come Petrarca è prediletto da Ortis), che nel suo animo però danno luogo a inediti fermenti creativi, visioni completamente nuove che poi si modellano in nuovi stampi che non sono  più quelli apprezzati dai classicisti delle vecchie generazioni. Certamente  sia Goethe sia Foscolo sono capaci di scrivere come gli antichi, ma né l’uno né l’altro  vogliono farlo in modo esclusivo, consapevoli come sono, entrambi, del cambiamento epocale in corso, al quale  offrono il proprio consapevole contributo. Il vitalismo insito nella tempesta e nell'assalto trova espressione nelle prime pagine del romanzo, nell'evocazione di una natura che non è solo paesaggio, tanto meno fondale idillico, ma stato d'animo, talvolta prossimo a coincidere con una fusione totale del protagonista in essa. La natura è coinvolta nei processi sentimentali di Werther, che la sente armonica e serena quando la sua anima lo è, mentre ne coglie i soprassalti e i travolgenti  impeti quando viceversa il cuore è sommerso dalla disperazione. Tanto vitalismo è in contrappunto con la melanconia, propria anch'essa già del primo romanticismo: l'eroe è predisposto alla sofferenza esistenziale, anche in virtù di una sensibilità sovrabbondante e eccessiva, fuori dalla norma. La stessa ipersensibilità che lo rende spesso, non senza un po' di compiacimento, isolato e refrattario alla vita di società, borghese o aristocratica che sia, percepita come intenta alla normalizzazione dei soggetti che ne fanno parte, nonché incline a considerare il genio artistico  un soggetto pericoloso, nella sua eccentricità, al quale si può dare voce solo quando e se riesca a diventare un artista riconosciuto. In apparente contraddizione con tutto il vitalismo al quale ho fatto riferimento. è la scelta del suicidio per l'eroe romantico che non sopporta l'esistenza delusa nei suoi motivi fondanti (l'amore, per Werther, l'amore e la politica, per Jacopo): è apparente, la contraddizione,  in quanto la ricerca di un assoluto esistenziale (un amore che sia tutto o una condizione politica totalmente appagante per l'individuo) è naturalmente destinata a condurre alla morte ove non riesca a essere coronata da successo. La vita non più degna di essere vissuta, ossia che appaia indegna del soggetto che la vive, deve essere conclusa con un gesto deciso, con un'assunzione di responsabilità e come affermazione di libertà, la cui matrice è senz'altro anche (per quanto non solo) quella stoica. In ogni caso non viene mai meno, nella dinamica degli eventi dei Dolori  e dell Ultime lettere, la propensione degli eroi romantici  a vivere in maniera totale e immersiva (non solo nella natura, anche nella dimensione sentimentale), al punto che passato, presente, futuro si addensano, fanno tutt’uno, con un esito che si situa, questo sì, agli antipodi della sensibilità neoclassica, propensa a fissare in un unico movimento (ossimorico, magari) ciò che l’artista decide di raffigurare e eternare per la posterità. Se il neoclassicismo riesce a  fissare la perfezione, racchiudendola nel bello ideale, persino  quando rappresenta un momento tragico e tumultuoso come la morte di Laocoonte e dei figli fra le spire del serpente marino (dalla scultura che Winckelmann rende icona del classico nel suo saggio del 1755 Pensieri sull’imitazione dell’arte greca nella pittura e nella scultura), il romanticismo è tensione permanente dello spirito che non s'appaga mai, percezione di abissi e di distese infinite dove è inevitabile perdersi, solitudine nei confronti della quale nutrire al contempo attrazione e repulsione. Il romanticismo è poi una fucina di nuovi miti: per sostituire adeguatamente quelli, certo innumerevoli, partoriti dalla fantasia del mondo classico (le Metamorfosi di Ovidio ne sono un mirabolante ricettacolo) ci voleva l'impegno di diverse generazioni, dislocate a diverse latitudini e in  variegati ambiti culturali. I nuovi miti vengono dal nord, per cominciare, e alimentano il ricco filone del fantastico, che da Hoffmann a Edgar Allan Poe tracima in molteplici direzioni, compresa la poesia di Baudelaire a metà del secolo, per poi inondare di sé anche il decadentismo di fine secolo, in Italia e altrove. Sono miti che evocano fantasmi della mente, dando corpo a paure ancestrali come quella dell'Uomo della sabbia che può saltare fuori dalle pagine di una filastrocca infantile e turbare per sempre la mente sovreccitata di un artista fallito, destinato a non comporre niente di davvero poetico e in compenso di morire preda della follia lanciandosi dall'alto di una torre. Il filo conduttore romantico, a ben vedere, si manifesta però anche in questo caso: il personaggio del racconto fantastico di Hoffmann è pur lontanamente imparentato con Werther, per quanto concerne l'ospitare in sé insostenibili contraddizioni e tensioni emotive che, se non riescono a diventare arte, possono davvero solo condurre alla pazzia o al suicidio. Non si tratta certo del destino di un'intera generazione, dato che nello stesso periodo, il medesimo romanticismo dà voce anche a più fattive tensioni: quelle che portano, in alcune aree d'Europa rimaste indietro nei processi di unificazione nazionale come la Grecia e l' Italia, oppure in contesti nazionali già attraversati da movimenti politici post restaurazione come la Francia, a costruire barricate, condurre assalti a fortezze, alimentare rivolte più o meno popolari, opporsi allo straniero occupante, promuovere risorgimenti nazionali. Si tratta del romanticismo che confida nella Storia, quella con la maiuscola, e che si premura anche di darle una voce se non direttamente il corpo di alcuni dei suoi esponenti: gli scrittori combattenti alla Byron, partito dalla natìa Inghilterra per combattere per l’indipendenza greca dai Turchi non si contano, e anche in Italia, da Foscolo in avanti, si moltiplicano i casi di poeti e narratori che partecipano intensamente, e ne scrivono, alle tumultuose vicende risorgimentali.  In consonanza con questo, anch’esso un nuovo mito romantico (quello della patria ritrovata, risorta o finalmente nata), si manifesta la vena storica del romanticismo, il suo volgersi con interesse alle vicende del mondo, quelle vere  e reali, ricostruibili anche attraverso precise documentazioni e ricerche, che  apportino solidità e certezze, magari anche virtuose idealità, nel territorio infido dell’immaginazione.  In Italia è soprattutto Manzoni a assumersi l’onore e l’onere di stabilire come possa l’immaginazione, che ama gli sconfinamenti e patisce di essere incanalata, sopportare di congiungersi con l’istanza imperiosa del vero storico e promuovere educazione per tutti, da intendersi naturalmente come tutti quelli che si possono permettere di leggere romanzi e poesie. A proposito di costoro, tra l’altro, la rivoluzione romantica sta operando un cambiamento significativo nel pubblico: non più quello aristocratico esclusivamente dedito, con rare eccesioni, alla pratica del neoclassicismo, ma un pubblico moderno, ovvero borghese, quello stesso che secondo Hegel avrebbe iniziato a concepire la propria epopea nella forma del romanzo  nato, secondo lui,  nel Settecento della rivoluzione industriale. Il nuovo pubblico in questione, com’è naturale attendersi, va alla ricerca di consonanze con il proprio spirito, ed è per questo che un romanziere come Manzoni riesce ad affermarsi come riferimento di parecchie generazioni del primo e del secondo Ottocento con la sua visione educativa dell’arte, al sua religiosità,  e con la commistione di vero e di interessante resa funzionale appunto all’utile. Il magistero manzoniano regna quasi indiscusso in Italia fino alla metà del secolo, quando si affaccia sulla scena  il movimento della prima scapigliatura, nuovo manipolo di giovani insoddisfatti (della storia, dell’arte e della vita) che di là e di qua delle Alpi (in Francia nascono prima e si chiamano bohémien) esprimono una forma di rivolta contro le forme già strette della società e della cultura scaturite dalle due rivoluzioni principali del Settecento, quella francese e quella industriale, cui si è aggiunta nel primo Ottocento quella romantica. Con i ribelli scapigliati, in verità, il romanticismo continua, non certo s’estingue, ma prende per così dire una nuova piega, destinata a notevole evoluzione nei decenni a venire.

Però,  prima della svolta di mezzo secolo si leva  la voce potente dell’edonista infelice, lo spirito del fuggiasco recanatese che odia il natio borgo selvaggio ma proprio da lui trae ispirazione per molti dei suoi piccoli e grandi idilli, affacciandosi ai veroni  del paterno ostello, contemplando le vaghe stelle dell’orsa, dialogando con la graziosa luna  e naufragando dolcemente nell’infinito immaginato  di là dalla siepe. 39 anni di vita certo sofferente, la tubercolosi ossea di cui soffriva non gli diede tregua a partire dall’infanzia e fino alla morte, in assenza totale di una diagnosi e di cure che non erano ancora state scoperte, ma operosissima: la raccolta dei Canti contiene tutte le sue liriche, dall’esordio neoclassico a quello che si considera il suo testamento spirituale, La ginestra, scritta a pochi mesi dalla morte avvenuta a Napoli nel 1837; i 101 Pensieri e lo Zibaldone racchiudono centinaia di riflessioni anch’esse concepite entro l’arco dell’intera esistenza, mentre le Operette morali contengono 24 componimenti in prosa concepiti e redatti in un arco di una decina d’anni fino al 1832. Poi Leopardi, dai dodici anni in avanti,  traduce e commenta opere della letteratura latina, greca e italiana, conduce ricerche filologiche, studia l’ebraico e l’astronomia. E la sua applicazione allo studio, anche se non sempre matto e disperatissimo come nei primi anni della sua vita, continua incessantemente.  A noi importa tra le tante cose, capire da cosa possa essere sorta l’idea calviniana di un accostamento ossimorico come edonista infelice (così lo definisce in una delle  Lezioni americane, quella  dedicata all’Esattezza): al principio della concezione leopardiana, è innegabile, c’è il piacere, come chiaramente si legge nello Zibaldone, in un appunto risalente al 1820, scritto quindi da un Leopardi poco più che ventenne: l’aspirazione al piacere, alla felicità, è intrinseca all’anima umana, che riesce a figurarselo così com’esso è nella sua più pura espressione, ovvero infinito. Di qui la condanna a una permanente insoddisfazione, a una tensione che non si estingue mai dato che il piacere infinito, nella finitezza dell’esistenza, non potrà mai essere provato davvero. L’edonista che è in Leopardi lo conduce a percorrere e ripercorrere le via della ricerca di piacere e felicità che abbiamo già visto calcare dai primi romantici, a loro volta cultori di sehnsucht, quel desiderio di desiderare anch’esso foriero (non è una contraddizione, ma un effetto collaterale) di disperazione esistenziale, ma al contempo in grado di generare percezioni d’assolutezza che quando trovano la via dell’espressione  artistica diventano appaganti. L’edonista infelice, infatti, concepisce nel suo percorso di ricerca del senso della vita, anche questo è un suo rovello, la possibilità di sperimentare l’assoluto già ricercato dal Faust di Goethe nella dimensione dell’immaginazione poetica. Da questo proviene quella sorta di misticismo rivisitato con animo laico che si coglie nell’idillio Infinito: distillando le parole poetiche, sentendo nella natura il sublime che le appartiene e trasferendolo nella lingua, il poeta che sa di creare e quindi di scrivere come Dio si permette di oltrepassare il limite, naufragando in una riedizione dell’excessus mentis in Deum di dantesca memoria. Si tratta tuttavia di un attimo, di un lampo di luce accecante dal quale ci si riprende. Dato che poi il percorso del poeta è anche caratterizzato da tentativi di razionalizzare l’infelicità umana, dipingendola sotto specie di cammino inesorabile verso una chiarezza di sé, una sorta di implacabile attuazione del monito apollineo conosci te stesso: più l’essere umano si conosce, più si rende conto della propria condanna all’infelicità, ovvero della totale insensatezza della propria vita. Dall’ancora rassicurante pessimismo storico, che riconosce alla natura una benevolente attenzione agli esseri umani, rei di essersi distanziati da essa e così procurati da soli fastidi e pene, si passa a quello cosmico, che l’occhio implacabile del pastore errante protagonista del celebre grande idillio evoca come dato di fatto incontrovertibile. Tutto soffre, è un possibile sottotitolo del componimento, al quale vien subito da collegare un altro celebre testo riflessivo, il Dialogo che s’intesse fra la Natura e l’Islandese, nell’omonima operetta morale. Con l’ironia che caratterizza questa raccolta, un distillato di sapiente e saggia conoscenza dell’umano, Leopardi costringe a riconoscere che nessuno ha offerto all’umanità un posto d’onore nell’universo, la cui esistenza prescinde da qualsiasi intendimento da parte sua, e ancor meno da un interesse specifico nei suoi riguardi. Insomma, come sillaba cripticamente il mitico gallo silvestre sempre dalle pagine delle Operette morali, non ci sono arcani da scoprire,  forse nemmeno ne sono mai stati enunciati. E allora, per non esporsi a naufragi soltanto catastrofici, non resta che mostrarsi generosi con sé e con gli altri, non resistendo vanamente al fato o alla natura, ma accettando quel che ci tocca in sorte, variazioni sul tema del fiore del deserto, la lenta ginestra che spande il suo profumo nei deserti e non si cura di magnifiche sorti e progressive.

Le tensioni dell’animo che sono nate con le prime generazioni romaniche si decantano verso la metà del secolo e si trasformano, com’è naturale avvenga per effetto di vicende storiche e sociali, di cambiamenti di sensibilità che si presagiscono anni prima e poi si manifestano. Il fermento in effetti è notevole,  si verificano imponenti cambiamenti a livello di organizzazione  e diffusione della cultura, rivoluzioni, trasformazioni del modo di vivere dalle campagne alle città, e queste ultime che diventano, a detta di anime sensibili, veri e propri inferni. A dare voce a questi sommovimenti sono, tra gli altri, i giovani della bohème parigina, immortalati da Murger nei suoi Quadri della vita di bohème,  raccolta di quadri di vita ambientati nella Parigi degli anni cinquanta del secolo, nel Quartiere latino dove vivono artisti squattrinati e spesso disperati, che vagheggiano l’amore e la fama, ma per lo più devono faticare a pagare l’affitto di soffitte malandate e a concedersi piaceri che non siano ubriacature in osterie malfamate. Tracce di ribellismo, ma senza venature politiche di alcun genere, si individuano in questa matrice, ripresa dagli scapigliati nostrani, analogamente privi di contenuti ideologici d’alcun genere. Si tratta di arte che cerca di spingersi in nuove direzioni, ma senza aver chiari intenti, o potenti ispirazioni, che valgano a supportare una simile ardimentosa ricerca. In questo periodo è quindi piuttosto Baudelaire a rappresentare un punto di riferimento e persino di svolta per la  poesia: con lui, come al principio del percorso romantico, si tornano a coniugare due opposti, la forma classica pura e la tensione romantica, per di più nella sua forma già inclinante al decadente. La poesia di Baudelaire, che in Italia sono proprio gli scapigliati a diffondere (pur non riuscendo a riprodurla se non lontanamente) nasce forse anche da quella testa di Medusa che sconvolse di orrida bellezza Shelley nel 1819 agli Uffizi di Firenze: una Beauté da cui spira un orrore che attrae, non respinge come sarebbe naturale pensare, ma irretisce e, proprio come la creatura del mito, impietrisce chi osa sostenere lo sguardo. I cercatori di assoluto della prima generazione romantica sono ora ossessionati dalla bellezza ed è per questo che può diventare eloquente condurre una doppia lettura, in francese e in italiano, della Beauté di Baudelaire, seguita da un brevissimo commento della medesima,  con cui concludo questo percorso lungo un centinaio d’anni.

 La Beauté

Je suis belle, ô mortels! comme un rêve de pierre,

et mon sein, où chacun s'est meurtri tour à tour,

est fait pour inspirer au poète un amour

eternel et muet ainsi que la matière.

Je trône dans l'azur comme un sphinx incompris;

j'unis un coeur de neige à la blancheur des cygnes;

je hais le mouvement qui déplace les lignes,

et jamais je ne pleure et jamais je ne ris.

Les poètes, devant mes grandes attitudes,

que j'ai l'air d'emprunter aux plus fiers monuments,

consumeront leurs jours en d'austères études;

car j'ai, pour fasciner ces dociles amants,

de purs miroirs qui font toutes choses plus belles:

mes yeux, mes larges yeux aux clartés éternelles!

La bellezza

Sono bella, o mortali, una chimera

di pietra! Tutti il mio seno ha estenuato,

ma al poeta un amore ha ispirato

tacito, eterno come la materia.

Ho il trono nell'azzurro, sfinge oscura,

ho il cuore di neve, del cigno il biancore,

odio il gesto che le linee scompone,

al riso e al pianto estranea è la mia natura.

Vedendomi in atteggiamenti fieri

ispirati a scultorei monumenti,

i poeti si danno a studi austeri,

per stregare così docili amanti

ho, specchi dove il bello si discerne,

gli occhi, i miei occhi dalle luci eterne.

Trad. di Antonio Prete

Nel sonetto, Baudelaire immagina le parole che la Bellezza rivolgerebbe agli artisti, poiché la questione estetica è al principio di ogni atto creativo.  Il testo non lascia speranza, poiché è la Bellezza stessa a dichiarare la propria inaccessibilità. Dunque si tratta di una dichiarazione di impotenza artistica? No, questa allegoria veicola un sentimento importante e centrale in  Baudelaire, ossia  la nostalgia per qualcosa che  non sappiamo se esista, ma in ogni caso è oggetto di un desiderio inesauribile, che non trova realizzazione nel mondo della modernità. Altera e distante, la Bellezza appare e sa  dar  voce al lamento dell’artista, alla dolente supplica che quest’ultimo rivolge per superare questa gelida distanza. È una forma di Bellezza, che racchiude in sé l’eterno e l’assoluto e che è forse nostalgia di un’unità con il trascendente, esiste solo sotto forma di postulazione. Essa coincide con il canone di Bellezza dell’età Classica (odio il gesto che le linee scompone) caratterizzata dall’armonia, dalla simmetria, dall’ideale, dall’universale e dal perfetto accordo della bellezza con la morale. Il poeta sa immaginare un altrove in cui tutto ciò, ancora, esiste.

 

 

 

 

 

 

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