DISPENSA MODULO 1
GOETHE
Primogenito di Johann
Caspar Goethe, giurisperito e consigliere imperiale, e di Katharina Elisabeth
Textor, Johann Wolfgang von Goethe nasce a Francoforte sul Meno nel 1749.
Riceve dapprima un’educazione familiare, studiando insieme alla sorella di poco
più giovane sotto la guida del padre e di qualche maestro privato. Pur avendo
sviluppato una vocazione per le lettere e la filosofia, per volontà paterna si iscrive alla facoltà di diritto di Lipsia
nel 1765. Trascorre qualche anno di intensa partecipazione alla vita della
città, incorre in qualche problema di salute, ma si riprende, e parte per
Strasburgo nel 1775 per proseguire gli studi presso l’università e perfezionare
la sua conoscenza del francese. Nel 1771, tornato a Francoforte, ottiene il permesso
di esercitare la professione di avvocato, che abbandona dopo circa quattro
anni. Nel frattempo si dedica alla scrittura e inizia a seguire la nuova
corrente dello Sturm und Drang, che
prende il nome dall’omonimo dramma di Friedrich Maximilian Klinger. Consigliato
dal padre, si trasferisce nel 1772 nella cittadina di Wetzlar, e si iscrive al
tribunale come praticante. In questo periodo conosce la giovane che
probabilmente gli ispira il personaggio di Lotte nei Dolori del giovane Werther, così come probabilmente il personaggio
di Werther è ispirato a un suo amico, suicida per amore, di quel periodo. Nei
primi mesi del 1774 l’ispirazione detta a Goethe I dolori del giovane Werther, il cui impatto sulla società del
tempo è immediato: in breve tempo il testo valica i confini della Germania e
viene tradotto in tutte le lingue europee, contribuendo così al diffondersi
della sensibilità che è possibile approfondire nei suoi connotati salienti solo
leggendo e analizzando l’opera. Complicato procedere con un dettagliato
resoconto della genesi delle numerosissime opere di Goethe, autore estremamente
prolifico, studioso dalle molteplici curiosità, viaggiatore e cultore di pittura e musica. Scelgo pertanto solo
qualche evento e qualche opera che possano poi essere evocate e collegate al
momento dell’analisi del primo romanzo.
Goethe viaggiatore,
allora, per dare conto di quello che viaggiare significa a quell’epoca, col
vantaggio di poter leggere considerazioni dello stesso autore, il quale non
manca di redigere un diario di viaggio, Ricordi del viaggio in Italia 1786-’87,
all’inizio dei quali si legge che la partenza avviene come sotto un cogente
impulso, una furia quasi, che lo prende,
a fine agosto, poco dopo la festa di compleanno organizzata da suoi
amici, e lo induce a salire, quasi di
soppiatto, su una carrozza diretta a
sud, prima tappa la Baviera, poi, l’11 settembre, le prime città d’Italia:
Bolzano e Trento.
Ho percorsa la città [Trento] la quale
è molto antica, ma che però possiede in alcune strade case nuove, di buona
costruzione. Nella chiesa havvi un dipinto, il quale rappresenta il concilio
ecumenico, intento ad ascoltare un discorso del generale dei gesuiti.
Avrei pure voluto sapere quanto avesse detto quegli all’assemblea. La chiesa di
quei padri porge bello aspetto, colle sue colonne di marmo rossiccio nella
facciata, e l’ingresso è preceduto da una tenda pesante per impedire l’accesso
alla polvere; la chiesa stessa poi è chiusa da una cancellata in ferro, la
quale consente spingere lo sguardo all’interno. Tutto era silenzioso,
tranquillo, imperocchè non si celebrano più in quella chiesa le funzioni del
culto, e la porta era aperta, unicamente perchè così si suole praticare in
tutte le chiese, all’ora del vespro.
Mentre io stavo esaminando l’architettura, la quale è
simile a quella di tutte le chiese dello stesso ordine, entrò un vecchio, togliendosi la berretta nera che aveva in
testa. Tutti i suoi abiti neri, vecchi, logori, rivelavano appartenere desso al
clero; egli s’inginocchiò davanti alla cancellata, e dopo fatta una breve
preghiera, si alzò di nuovo in piedi, e nel girarsi addietro disse a mezza
voce, quasi parlando a sè stesso «Ora che hanno cacciati i gesuiti, avrebbero
per lo meno dovuto pagare loro quanto ha loro costato la chiesa. Io so pure al
pari di tanti altri, quanto abbiano loro costato non solo la chiesa, ma ancora
il seminario.» Intanto era ricaduta dietro di lui la tenda che io aveva tenuta
alzata, standomene in silenzio; egli si era fermato sull’ultimo gradino in
alto, e diceva «Non è l’imperatore che abbia ciò fatto; lo volle il Papa.» E
volgendosi verso la strada, senza punto badare a me, disse «Prima gli
Spagnuoli; dopo noi; quindi i Francesi. Il sangue di Abele grida vendetta,
contro Caino suo fratello» e scendendo la gradinata si avviò per la strada,
continuando a parlare per tal guisa, con sè stesso. Probabilmente era tale
mantenuto dai gesuiti, il quale, dopo l’immensa rovina dell’ordine sarà
impazzato, e che verrà ora ogni giorno nella chiesa deserta, per cercarvi gli antichi
abitatori, e dopo una breve preghiera, scagliare maledizioni ai persecutori di
quelli.[1]
Tanto per dare
un’idea dello spirito di questi appunti di viaggio, riporto ancora due passaggi
del testo, uno relativo a Venezia, il secondo a Roma
Era scritto nel libro del destino, alla pagina a me
dedicata, che nel 1786 il 28 settembre a sera, e verso le cinque, secondo il
nostro modo di contare le ore, sboccando dalla Brenta nella laguna, io potessi
vedere Venezia per la prima volta, e poco dopo porre il piede in questa città
meravigliosa, formata tutta d’isole, e visitare questa repubblica di castori!
La cosa sta propriamente così, e Venezia, grazie a Dio, non è più per me una
parola vana, un nome vuoto, il quale mi ha tormentato le tante volte col suo
suono fatale! [...] Di Venezia si è di già narrato e scritto oramai tanto,
che io non intendo punto farne una descrizione. Narrerò unicamente quanto mi
avvenne, le cose le quali mi colpirono. E la prima fu qui ancora il popolo,
questa folla immensa, la quale, non spontaneamente, ma per necessità fu
condotta a vivere diversamente dagli altri popoli. Non fu per propria elezione
che i primi abitatori si stabilirono su queste isole, nè che vennero altri
unirsi ai primi; la necessità fu quella la quale li spinse a cercare sicurezza
in una località infelice che col tempo seppero rendere felicissima, e che li
rese avveduti allorquando tutte le contrade settentrionali trovavansi immerse
tuttora nelle tenebre. D’allora in poi, le case sorsero le une a fianco alle
altre, le paludi, le sabbie furono rese ferme, e stabili per mezzo delle
pietre, e le case cercando aria, nè più nè meno che le piante le quali crescono
chiuse in spazio ristretto, cercarono a crescere in altezza, quanto loro faceva
difetto in larghezza. Facendo fin da principio la massima economia del terreno,
si lasciò alle strade quel tanto di ampiezza appena, che si richiede per
separare le file delle case le une dalle altre, e per consentire il passo ad
una persona. Nel resto l’acqua servì loro di strade, di piazze, di passeggiate.
Il Veneziano pertanto dovette diventare uomo di nuova specie, nella stessa
guisa che Venezia sorge città tale, da non potersi paragonare a verun altra. Il
canale grande che si svolge a forma di spirale, non ha strada al mondo che lo
agguagli; la piazza di S. Marco non ha altro che le si possa porre a confronto.
E d’uopo far menzione poi dello spazio acqueo che si stende a forma di mezza
luna, al di quà di Venezia propriamente detta. A sinistra si scorge l’isola di
S. Giorgio maggiore, alquanto più in là a diritta la Giudecca ed il suo canale;
più in là, e sempre a diritta la dogana, e l’ingresso del canal grande, dove
sorgono, l’una di fianco all’altra, due chiese grandiose ricche di marmi. Sono
questi, accennati con poche parole, i principali oggetti i quali si
presentarono al nostro sguardo, allorquando sboccammo fra le due colonne sulla
piazza di S. Marco. Tutte queste cose furono disegnate ed incise le tante e le
tante volte, che sarà facile a miei amici il rappresentarsele. Dopo cenato mi
affrettai di procacciarmi un impressione complessiva della città, e mi lanciai,
solo, senza guida, tenendo presenti soltanto le stelle, in quel laberinto della
città, la quale tuttochè frastagliata in ogni punto di canali, e canaletti, trovasi
però tutta riunita da ponti, e ponticelli. Non è possibile imaginarsi, senza
averla vista, la ristrettezza di queste strade, l’aderenza delle case le une
alle altre. Generalmente, stendendo le braccia si può misurare la larghezza
delle prime, e per talune bastano i gomiti, se si appoggiano le mani ai
fianchi; si trovano pure per dir vero strade più ampie, e quà e là piccole
piazze, ma in complesso tutto si deve dire angusto, ristretto. Trovai
facilmente il canale grande, ed il ponte principale, quello di Rialto, formato
di un arco solo in marmo bianco. Dall’alto di quello la vista è stupenda; si
vede il canale solcato di barche, le quali recano dalla terra ferma i prodotti
occorrenti alla vita, e che per la maggior parte si fermano e sbarcano il loro
carico in questo punto, e fra mezzo alle barche poi, una flottiglia di gondole;
ed oggi specialmente che era giorno di festa, quella di S. Michele, lo
spettacolo, la vista erano meravigliose, se non che, per poterne dare un’idea
abbastanza esatta, è d’uopo soggiungere ancora alcuni particolari.Le due parti
principali di Venezia, separate dal canal grande, non sono riunite da altro
ponte, all’infuori di quello unico di Rialto, però si provvide alle
comunicazioni fra l’una e l’altra parte della città, per mezzo di barche
pubbliche, le quali attraversano di continuo il canale, in certi punti
determinati. Ed oggi, tutta quella folla pulitamente vestita, le donne con un
velo nero sul capo, faceva bellissima vista, nell’avviarsi alla chiesa dove si
celebrava la festa dell’Arcangelo. Scesi dal ponte, e mi portai in uno di quei
punti di passaggio, per osservare con più comodo le persone le quali
attraversavano il canale, e viddi colà bellissime figure, e fisionomie. Allorquando
mi trovai stanco, presi posto in una gondola, ed abbandonando le stradelle
anguste, mi avviai per la parte a settentrione del canal grande, facendomi
portare all’isola di S. Chiara, nelle lagune, nel canale della Giudecca, e per
ultimo alla piazza di S. Marco, ed allora mi sentii io pure a mia volta
compadrone del mare adriatico, al pari di qualunque Veneziano sdraiato nella
sua gondola. Mi ricordai allora del mio buon padre, il quale non la finiva
tanto facilmente, allorquando prendeva a discorrere di questa città. Non ne
farò io oramai altrettanto? Tutte le cose le quali mi circondano sono degne di
rispetto, sono opera pregevole delle forze di molte generazioni di uomini; sono
monumento stupendo, non già di un principe, ma bensì di un popolo. Ed ora,
quantunque la laguna si vadi poco a poco interrando, quantunque sorgano vapori
mefitici dalle paludi, tuttochè sia decaduto il commercio, e venuta meno la
grande possanza della Repubblica, sono pur sempre meritevoli questa ed i suoi
ordinamenti, dell’attenzione di un osservatore. Dessa soggiacque all’influenza
del tempo, a cui nessuna cosa sfugge, di quante sono al mondo.
A Roma, invece, giunge il primo novembre.
Sì, io sono
finalmente arrivato in questa capitale del mondo. Se io l’avessi potuta
visitare quindici anni sono, in buona Compagnia, e sotto la direzione di un
uomo intelligente, mi terrei propriamente felice. Ma dovendola visitare da
solo, vederla con i miei propri occhi, è meglio che io abbia aspettato più
tardi.
[...] Mi trovo qui da sette giorni, e mi
vado formando mano a mano, un’idea generale di questa città. Girando continuamente, vo acquistando cognizione
della pianta di Roma nuova e di Roma antica; contemplo le rovine,gli edifici,
visito ora una villa, ora un altra; mi fermo a lungo davanti alle rarità le più
notevoli; cammino su e giù, sempre cogli occhi aperti, guardando ogni cosa,
imperocchè soltanto a Roma è possibile
prepararsi a conoscere Roma. Lasciatemi però dire essere ufficio triste ed
ingrato, quello di cavar fuori Roma antica dalla Roma moderna; ma è pure forza
compierlo, nella speranza di rinvenirvi grande soddisfazione. Trovansi traccie
di splendidezza e di distruzione, le quali superano ogni mia imaginazione.
Quanto fu rispettato dai barbari, venne manomesso dagli architetti moderni.
Quando si considera l’esistenza di questa città, la quale risale a due mille
anni ed oltre; quando si pon mente a tutte le vicissitudini, e tutte le
trasformazioni a cui andò soggetta nel corso dei secoli, e che si pensa sorgere
pure dessa sempre sullo stesso suolo, sugli stessi colli; che si scorgono
ancora le stesse colonne, gli stessi muri; che nel popolo si riconoscono
tuttora traccie del carattere antico, si finisce per diventare in certo modo
contemporaneo delle varie epoche, delle diverse vicende, per comprendere quanto
a primo aspetto pareva oscurissimo, vale a dire, in qual modo una Roma sia
succeduta all’altra; e non solo quella moderna all’antica, ma quelle ancora le
quali si formarono, e si succedettero, nelle epoche intermedie. Ora io non ho
fatto altro che cercare a scoprire i punti tuttora nascosti in parte, alla
quale cosa mirabilmente giovano i lavori preparatori fatti fin qui; imperocchè,
a partire dal secolo XV ai giorni nostri, valenti artisti ed eruditi dedicarono a quegli studi tutta intera la
loro vita. Buona parte di questo lavoro poi si compie agevolmente, unicamente
nel percorrere Roma, per recarsi a visitare le cose le più notevoli; imperocchè
negli altri luoghi è d’uopo ricercare queste, e qui, in tanta abbondanza, e
cotanto vicine le une alle altre, si offrono quasi spontanee allo sguardo. Sia
che si stia fermo, sia che si cammini, si vedono dovunque un quadro, una vista
di ogni genere, di ogni specie; palazzi, e rovine, giardini e deserti, strade
ampie e strade strette, casipole, stalle, archi di trionfi e colonne, e spesse
volte tutte queste cose addossate cotanto le une alle altre, che si potrebbero
disegnare sopra uno stesso foglio di carta. Converrebbe avere cento mani, per
poter descrivere tutto. A che cosa può servire una penna? Tanto più se si pensa
che si resta stanchi, quasi spossati, dal continuo vedere, ed ammirare.
Queste copiose
testimonianze di Goethe viaggiatore sono preziose in quanto riassumono
egregiamente uno spirito che connota il Settecento come quel crogiuolo nel
quale il classicismo si combina con la sensibilità alla quale si darà poi il
nome di romanticismo. Non così in opposizione, come l’impostazione in chiave di
dibattiti lascia credere, ma viceversa in grado di favorirsi l’un l’altro.
L’ammirazione che Goethe riserva alle antichità
romane, documentata nelle ultime righe riportate, si manifesta anche
come una sorta di estenuazione: l’antico che risuona ovunque, sotto specie di
ruderi e palazzi, di scorci e di vedute, produce un’ammirazione che, facile
immaginare, può convertirsi in annichilimento
delle facoltà immaginative. Ma è proprio su questo punto che, invece,
s’intravvede la sinergia possibile. Un fenomeno che si manifesta anche nello
spirito di Werther o, come vedremo, in quello di Jacopo Ortis. Omero, per il
primo, Petrarca, per il secondo, puri elisir di classico, prendono a fermentare
nell’anima producendo visioni completamente nuovi, fermenti creativi, che poi
si modellano in nuovi stampi che non sono certo più quelli apprezzati dai
classicisti delle vecchie generazioni. Eppure sia Goethe sia Foscolo sono
capaci di scrivere come gli antichi.
Né l’uno né l’altro, però, vogliono farlo, consapevoli come sono, entrambi, del
cambiamento epocale in corso, al quale peraltro offrono il proprio consapevole
contributo. Il passaggio forse più significativo a questo proposito è quello in
cui lo scrittore tedesco, pur pervaso di ammirazione per il passato classico,
coglie in esso qualcosa che ai classisti vecchio stile non interessa per nulla:
come nel suo seno covi, si nasconda e attenda di manifestarsi, il futuro
dell’arte, nonché il futuro della vita. Perché l’ammirazione non si
rattrappisca e si muti in rassegnata contemplazione di quello che non sarà mai
più (così bello, così perfetto) è essenziale che si manifesti anche questo slancio
verso il futuro, in direzione di uno svelamento che non può certo essere
frenato nemmeno dalla morte. Seppure entrambi i protagonisti dei primi romanzi
romantici si suicidano, negando con questo gesto, almeno in apparenza, il
soprassalto vitalistico al quale sto facendo riferimento, tuttavia non viene
mai meno, nella dinamica degli eventi dei Dolori e dell Ultime
lettere, la propensione a vivere immersivamente, al punto che passato,
presente, futuro si addensano, fanno tutt’uno, con un esito che si situa,
questo sì, agli antipodi della sensibilità neoclassica, propensa a fissare in
un unico movimento (ossimorico, magari) ciò che l’artista decide di raffigurare
e eternare per la posterità.
Un altro Goethe
interessante da scoprire, per avere
un’idea abbastanza ampia del suo orizzonte di scrittore prolifico e longevo, è
quello che reca un nuovo contributo a un mito anch’esso di origine antica, per
quanto non greco-latina: il mito di Faust[2],
nell’omonimo dramma, la cui composizione dura letteralmente una vita, dato che
l’originario, Urfaust risalirebbe al
1772, mentre l’edizione finale viene completata da Goethe poco prima di morire,
e pubblicata postuma, nel 1832. Il personaggio di Faust nasce nel XVI. secolo: compare in un anonimo Volksbuch, pubblicato a Francoforte nel 1587 presso
l’editore Spieß. Si tratta di un erudito che stringe un patto con il diavolo
per ottenere conoscenza e potere di là
dai limiti posti dall’esercizio delle sole facoltà umane. Dal medioevo all’età
moderna, il personaggio inizia a delinearsi,
soprattutto in ambito alchimistico,
con riferimento al biblico Simon Mago[3] il quale (Atti
degli apostoli, 8,924) sarebbe stato solito sbalordire gli abitanti di
Samaria con le sue arti magiche. Battezzato dall’apostolo Filippo, non abbandona
del tutto le sue pratiche, offrendosi di comprare il diritto di far discendere
lo Spirito Santo imponendo le mani. Maledetto da Pietro, Simon Mago chiede di essere perdonato. La tradizione vuole che in seguito
sia tornato alle sue pratiche magiche e abbia contribuito a promuovere l’eresia
gnostica. Particolarmente interessante, e degno di essere approfondito, il tema
della connessione fra forza demoniaca e scienza
(intesa appunto come scienza magica o
alchemica), che rappresenta il
demonio come un ente in grado di dare
agli esseri umani delle prerogative (sottratte al divino) che lo rendono potente (quasi onnipotente) ma pagando un prezzo spirituale, un tributo che
coincide con la dannazione eterna,
ovvero con la perdita di un bene assoluto anche se non sempre precisato nelle
sue peculiari caratteristiche. Il tema di partenza è quello della scelta fra bene e male,
ma presto i contorni si sfumano, al punto che nel momento in cui la tematica è
colta da Goethe, e resa nella forma del suo dramma tragico, le linee di
separazione sono decisamente complesse da stabilire. Mi limito qui a suggerire
che quella proposta da Goethe con la vicenda di Faust sia, tra l’altro, la
sfida della manipolazione demiurgica della materia, quella che gli alchimisti
conducono all’estremo limite della ricerca della pietra filosofale ovvero dell’assoluto,
non senza condire la raffigurazione delle forze in gioco (semplificando, le
riduco alle due macro categorie, materiali
e spirituali) di una permanente
tentazione del carnascialesco, lo
spirito giocoso che capovolge tutto nel momento più (apparentemente)
inopportuno, per lasciare poi inopinatamente aperte di nuovo tutte le
possibilità. Un breve cenno alla trama del dramma può consentirmi di suffragare
questo limitato suggerimento interpretativo.
Due prologhi precedono l’inizio: il primo, metateatrale, ospita la
discussione fra poeta, direttore di scena e attore in merito a cosa si debba
privilegiare, se l’arte o il pubblico; il secondo si svolge nelle
regioni celesti e propone il punto di partenza della tragedia: la scommessa
che Satana propone a Dio (reminiscenza
di quella biblica che coinvolge Giobbe) in merito all’irreprensibilità di un soggetto,
Faust medesimo, medico e teologo, che ha sempre obbedito alle leggi divine e
che Satana è sicuro di riuscire a sedurre. Dio non accetta la scommessa, ma
permette a Satana di tormentare Faust, dal momento che è certo sia destinato alla salvezza eterna. Faust
conduce, all’inizio del dramma, un’esistenza di studio che non lo soddisfa: non
riesce infatti a svelare quelli che gli paiono i segreti più profondi della natura, per penetrare i quali si dedica
alle arti magiche, con cui evoca lo
spirito elementare della Terra (ovvero Dio che opera attraverso la natura), ma
il tentativo si risolve nell’ennesimo, clamoroso insuccesso e Faust decide di suicidarsi, ma, un attimo
prima di bere una pozione avvelenata, ode le campane che annunciano la Pasqua e
rinsavisce: rilegge il Prologo del Vangelo di Giovanni (In
principio era il Verbo) e intuisce che la traduzione migliore sarebbe
quella che sostituisce atto a verbo; in seguito, capisce che il suo
cane è probabilmente posseduto da uno spirito maligno, che si rivela essere Mefistofele stesso. Faust,
che non teme il soprannaturale, cerca di trattenere il diavolo, che invece
vorrebbe allontanarsi dalla stanza, ma è bloccato da un pentagramma divino
sulla soglia di casa che egli, in quanto creatura demoniaca, non può spezzare.
Uscito di casa solo grazie all’aiuto di un topo, Mefistofele torna da Faust e
gli propone un patto: fargli conoscere le bellezze del mondo e della vita
rispetto all’esistenza di insuccessi e insoddisfazioni sperimentata fino a quel
momento dal dotto protagonista. Faust, che dapprima è titubante, accetta solo
quando gli viene proposto un patto di sangue, la cui posta è la sua stessa
anima. Infatti Mefistofele si propone di esaudire i suoi desideri grazie alla
magia: se riuscirà a far sperimentare a Faust un godimento tale da fargli
pronunciare la frase Dirò all’attimo: sei
così bello, fermati!, avrà l’esclusiva sul suo spirito. Faust, peraltro,
non teme l’oltretomba e, anzi, ha la ferma convinzione che nulla potrà più
dargli gioia, una volta terminata la vita terrena, quindi accetta di partire
con il diavolo alla ricerca dei più grandi piaceri che il mondo ha da offrire.
Le successive vicende, avventurose e a tratti fiabesche, conducono fino alla
richiesta da parte di Faust di far innamorare
di lui la giovane Margherita, una donna innocente e pia di cui si è
invaghito e da cui è stato respinto, benché a questo punto della storia
Mefistofele l’abbia reso giovane, bello e nobile. Grazie agli espedienti
escogitati da Mefistofele, Faust riesce a sedurre Margherita, ma la relazione volge presto al tragico e Margherita
viene condannata a morte per infanticidio, mentre Mefistofele coinvolge Faust
in un sabba infernale (La notte di Valpurga) e, alla fine di
questa parte, Margherita in carcere, per avere invocato il perdono di Dio,
viene salvata dagli angeli e portata in cielo. La seconda parte è ricchissima
di riferimenti alla mitologia classica ed è inizialmente ambientata presso la
corte imperiale. L’evento principale è rappresentato dall’innamoramento di
Faust per Elena di Troia, evocata dagli Inferi,
seguito da un secondo sabba, durante il quale assistono ad una
processione di creature e mostri mitologici. Faust, dopo aver salvato Elena da
un sacrificio rituale, ha da lei un figlio, Euforione, che però muore
prematuramente come Icaro nell’omonimo mito; Elena si ritira nuovamente negli
Inferi con l’anima del figlio, abbandonando Faust. Il protagonista e
Mefistofele aiutano poi l’imperatore in una guerra contro un usurpatore e Faust
riceve in cambio della vittoria un feudo costiero. Ormai vecchio e stanco, si
ritira nel suo nuovo possedimento, da cui fa espellere due anziani (dal nome,
evocativo di Ovidio, di Filemone e Bauci)
causandone infine la morte. Il demone dell’Angoscia s’impadronisce dello
spirito del protagonista, che rimpiange la sua vita sprecata in vane ricerche e
nel commercio con Mefistofele, e che
vuole dedicarsi a un’attività utile per la collettività, bonificando una
palude dei suoi possedimenti. Durante i lavori, mentre immagina un’umanità del
futuro veramente libera, Faust pronuncia la frase del patto, Dirò all’attimo: sei così bello, fermati!,
e Mefistofele pone fine alla sua vita per poter portare via la sua anima,
ma mentre sta per condurlo all’Inferno,
giungono degli angeli che, per intercessione di Margherita e in considerazione
del fatto che si sia sempre dedicato all’assoluto, lo portano in cielo. Il
poema si chiude con la celebrazione dell’eterno
femminino, e dell’Amore come forza
creatrice e motrice dell’intero universo.
Potete rendervi conto, da questa sintesi, quale variegata materia sia
contenuta in tale testo, che non a caso viene portato a compimento a pochi mesi
dalla morte, dopo essere stato iniziato in gioventù. Un contenuto che si può,
senza timore di essere approssimativi, non solo rilevare dalla sintesi ma ricondurre
subito al romanzo del quale abbiamo intenzione di occuparci prioritariamente, è
quella ricerca dell’assoluto alla
quale ho fatto più volte riferimento. Il termine stesso, assoluto, è utile da
definire almeno provvisoriamente. Assoluto
è, per via etimologica, quanto si situa in un territorio libero da ogni legame (ab unito
a solvo, ovvero sciolgo da). A parte l’uso grammaticale, nella lingua latina per
definire il costrutto sintattico dell’ablativo assoluto ad esempio, il termine
viene utilizzato in filosofia e teologia per indicare quanto si situi a un
livello trascendente, privo di
relazioni con la dimensione finita, che non può in alcun modo condizionarlo,
quindi inconoscibile nella sua natura, sovratemporale e infinito. Nel tentativo
di cogliere l’assoluto nella dimensione teologica, il centro di riferimento diviene il soggetto,
e implicitamente la realtà assoluta è posta come spirituale, non sostanza ma
spirito: Dio è spirito, ma è concepito
come trascendente, essere eterno e perfetto, sostanza o natura infinita. Come
si legge in Tommaso d’Aquino, Dio è absolutum
secundum quod in se est. Questo modo di rendere l’assoluto sostanza non elude il problema della
conoscenza, anzi, lo ripropone negli stessi termini in cui si poneva
nell’aristotelismo. Una sostanza inconoscibile nella sua essenza è pertanto,
ritornando alla questione della ricerca
dell’assoluto, una sfida permanente, che gli alchimisti denominano grande opera, ossia opus magnum alla latina, rendendo empirica, in particolare chimica,
la ricerca spirituale. Il nesso
con il nostro discorso letterario è rappresentato dal fatto che in tanti
soggetti, a cominciare da Werther, scaturiti dall’immaginazione romantica, si
manifesta nell’interiorità una condizione di permanente insoddisfazione che, se
non conduce all’autodistruzione, dà luogo a un vitalismo in grado di esprimersi
a vari livelli dell’esistenza. Di qui, nel romanzo di Werther, la sensibilità
acuita nei confronti della natura,
dell’arte, dell’amore, e, sul fronte opposto, il disgusto nei confronti della civiltà, dell’artefazione, delle convenzioni
di qualsiasi genere. Si predispone, come in un crogiuolo, l’eliminazione di
sostanze nocive alla sensibilità che definiamo romantica, la maggior parte delle quali è radicata in tradizioni
percepite ormai come usurate, in quanto espressione di una società obsolescente
ma ancora rispettata e in possesso di ricchezze e poteri. La contrapposizione,
nel romanzo, fra Werther e Albert si gioca anche su questo piano: il primo
rappresenta lo spirito ribelle, anticonvenzionale, romantico, mentre il secondo la rispettabile e rispettata coscienza borghese, che tiene a graduali e controllati cambiamenti, e rifugge
ogni tipo di eccesso, stabilendo soglie molto basse per la definizione di
quest’ultimo. Riporto, per suffragare questa affermazione, dalla quale potrà
poi svilupparsi un’analisi ulteriore, una citazione dal testo. Si tratta di una
lettera della prima parte dei Dolori del
giovane Werther, datata 12 agosto,
con la quale concludo, la sezione dedicata a Goethe.
"Questo non c'entra, replicò Alberto, perché un uomo
che è in balìa delle passioni perde ogni forza di ragione, ed è considerato
come in preda all'ebbrezza o al delirio". "Oh le persone
ragionevoli!, esclamai sorridendo. Passione! Ebbrezza! Delirio! Voi siete così
impassibili, così estranei a tutto questo, voi uomini per bene! Rimproverate il
bevitore, condannate l'insensato, passate dinanzi a loro come il sacrificatore
e ringraziate Dio, come il fariseo, perché non vi ha fatto simili a loro! Più
di una volta io sono stato ebbro, le mie passioni non sono lontane dal delirio,
e di queste due cose io non mi pento perché ho imparato a capire che tutti gli
uomini straordinari che hanno compiuto qualcosa di grande, e che pareva
impossibile, sono stati in ogni tempo ritenuti
ebbri o pazzi. Ma anche nella vita comune, è insopportabile sentir dire
ogni volta che qualcuno sta per compiere un'azione libera, nobile, inattesa:
quell'uomo è ubriaco, è pazzo! Vergognatevi, uomini sobri e savi!"
"Ecco le tue solite fantasie, disse Alberto, tu esageri tutto, e in questo
caso hai per lo meno il torto di paragonare il suicidio di cui ora è questione,
con delle grandi gesta, mentre esso non può esser considerato che come una
debolezza, poiché certo è più facile morire che sopportare con fermezza una
vita dolorosa". Ero sul punto di interrompere il discorso, perché niente
mi mette così fuori dei gangheri come vedere qualcuno armato di insignificanti
luoghi comuni mentre io parlo con tutto il cuore. Pure mi contenni, perché
molte volte ho sentito addurre quell'argomento e me ne sono indignato: risposi
dunque alquanto vivamente: "Tu lo chiami una debolezza? Ti prego, non
lasciarti ingannare dall'apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme
sotto il giogo di un tiranno se infine, fremendo, spezza le sue catene? Un uomo
che nel terrore di vedere la sua casa in preda alle fiamme sente le sue forze
centuplicate, e solleva facilmente dei pesi che a mente calma potrebbe appena
muovere? e uno che nel calore dell'offesa ne affronta sei, e li vince, tu lo
chiami debole? E, mio caro, se lo sforzo costituisce la forza, perché lo sforzo
supremo dovrebbe essere il contrario?". Alberto mi guardò e disse:
"Non te ne avere a male, ma gli esempi che tu porti non hanno nulla a
vedere col nostro discorso". "Può darsi, risposi, già più volte mi
hanno detto che il mio modo di ragionare è spesso privo di logica. Vediamo se
possiamo in altro modo figurarci quale coraggio deve avere un uomo che si
decide a gettare il fardello della vita, che è generalmente gradito, perché
solo in quanto noi sentiamo una cosa, possiamo parlarne con giusto criterio. La
natura umana, continuai dunque, ha i suoi limiti: essa può sopportare la gioia,
la sofferenza, il dolore fino a un certo punto, e soccombe se questo è
oltrepassato. Non è questione di stabilire se un uomo è debole o forte, ma di
vedere se egli può sopportare la sofferenza che gli è imposta, sia morale che
fisica; e a me pare tanto strano dire che un uomo è vile perché si toglie la
vita, come troverei assurdo dire che è tale perché muore di febbre
maligna". "Che paradosso!" esclamò Alberto. "Non tanto quanto
tu pensi, ribattei. Ammetterai che noi chiamiamo mortale una malattia la quale
assale la nostra costituzione naturale in modo che le sue forze sono in parte
distrutte e in parte sminuite nella loro attività: sicché essa non può in alcun
modo aiutarci né riattivare, per mezzo di alcuna risoluzione, il corso della
vita. Ebbene, amico mio, applichiamo questo allo spirito. Vedi quante
impressioni agiscono sull'uomo nella sua limitata sfera, quante idee penetrano
in lui, finché una crescente passione non gli toglie ogni serena forza di
pensiero e lo trascina alla sua perdita. Invano l'uomo libero da ogni cura e in
possesso della sua ragione lo guarda con pietà, invano cerca di convincerlo con
la persuasione. È come un uomo sano che pur stando al letto di un infermo non
può infondergli la minima parte delle sue forze". Ma per Alberto queste
erano idee troppo generali. Gli raccontai allora di una fanciulla che da poco
tempo era stata trovata morta annegata, e ripetei la sua storia. Era una buona
giovane creatura, cresciuta nell'angusta cerchia delle occupazioni casalinghe,
nel lavoro di tutta la settimana, e che non aveva altra prospettiva ed altro
piacere oltre quello di andare a volte la domenica, con le sue compagne, a
passeggiare intorno alla città, abbellita da qualche ornamento messo insieme a
poco a poco; di ballare forse una volta nelle feste solenni e di chiacchierare
qualche ora da una vicina con vivacità ed interesse a proposito di una disputa
o di una maldicenza. L'ardore della sua giovinezza le fa provare infine degli intimi
desideri accesi dalle lusinghe degli uomini. Le sue antiche gioie le sembrano
sempre più insipide, e infine incontra un uomo verso il quale è
irresistibilmente spinta da un sentimento sconosciuto e su cui posano tutte le
sue speranze; dimentica il mondo intero, non ode, non vede, non sente che lui,
non aspira che a lui, l'Unico. E poiché non è corrotta dai vuoti piaceri di
un'incostante vanità, il suo desiderio va dritto allo scopo, vuole essere di
lui, vuole in un eterno legame raggiungere tutta la felicità che le manca e
godere tutte le gioie alle quali aspira. Ripetute promesse, che coronano tutte
le sue speranze, ardite carezze che accendono il suo desiderio, dominano tutta
la sua anima; lei è in preda a un oscuro sentimento che le fa pregustare ogni
gioia, si esalta al massimo grado, stende infine le braccia per cingere
l'oggetto dei suoi desideri... e il suo amato la abbandona. Lei si stupisce e,
come insensata, le pare di essere davanti a un abisso: tutto è tenebre intorno
a lei; non ha nessun avvenire, nessun conforto, nessuna speranza, perché l'ha
lasciata colui nel quale si sentiva vivere. Non vede il vasto mondo che si
stende davanti a lei, né i molti che potrebbero consolarla della perdita
subìta; si sente sola, abbandonata da tutti al mondo, e cieca, oppressa
nell'angustia dell'orribile miseria del suo cuore, si precipita per distruggere
tutti i suoi tormenti in una morte annientatrice. Vedi, Alberto, è questa la
storia di molte persone! e non ti pare proprio lo stesso caso di una malattia? La
natura non trova nessuna via d'uscita dal labirinto delle forze turbate e
contrarie, e l'uomo deve morire. Guai a colui che potrà dire, vedendo un simile
evento: che pazza! se avesse aspettato, se avesse lasciato agire il tempo, la
sua disperazione si sarebbe placata, qualche altro si sarebbe trovato per
consolarla! Sarebbe lo stesso che dire: quel pazzo, è morto di febbre! se
avesse aspettato finché le forze gli fossero ritornate, i succhi vitali
purificati, e calmato il tumulto del suo sangue! Egli vivrebbe ancora oggi e
tutto sarebbe andato bene!". Alberto, a cui il paragone non pareva
appropriato, mosse ancora qualche obiezione; e fra l'altro disse che io avevo
parlato di una semplice giovinetta, ma che egli non capiva come si sarebbe
potuto scusare un uomo di criterio, di mente non così limitata, e che sa
cogliere un maggior numero di rapporti. "Amico mio, esclamai, l'uomo è
uomo, e quel poco d'intelligenza che egli può avere serve poco o niente quando
arde la passione e l'essere umano è spinto verso i confini della sua forza.
Tanto più... Ma ne parleremo un'altra volta" dissi, e presi il cappello...
Il mio cuore era gonfio e ci lasciammo senza esserci compresi. Ma del resto in
questo mondo è difficile che gli uomini si comprendano.
Nel lungo passo riportato
si trovano tanti spunti utili a tessere un discorso sul romanticismo che
coinvolga questo padre tedesco del movimento così come, fatte
salve differenze connesse con il contesto culturale, il padre italiano che riconosceremo incarnato dal
Foscolo dello Jacopo Ortis. Ne tratto
uno per cominciare, riassumibile nell’opposizione in sé scolastica,
didascalica, tra ragione e sentimento.
Per Albert, il coscienzioso, affidabile, concreto spirito borghese, Werther è
pressappoco un malato, un folle. Significativa, a questo proposito, la parabola
esistenziale (una scelta priva di logica,
per Albert) che Werther racconta per spiegare a Albert quale sia la differenza
sostanziale fra i loro due modi di ragionare sulle vicende umane. Una fanciulla
vergine (nella definizione è
importante naturalmente la verginità dell’anima) prova per la prima volta la
passione amorosa. Più che passione (che evoca uno stato di soggezione e porta
con sé una millenaria condanna promossa dalle filosofie ma soprattutto dal
cristianesimo) si tratta di entusiasmo,
di desiderio di slancio vitalistico, complice la natura certo più che la cultura.
Appassionata com’è dall’oggetto e soggetto del suo desiderio vi si dedica
totalmente, in modo assoluto, e viene
poi, all’improvviso, abbandonata. L’assoluto le sfugge, e a lei non resta che
la morte. L’assoluto non patisce sostituzioni, non accetta la similarità, è un tutto in se stesso, e sotto questo
profilo si capisce il ricorso all’aggettivo divino,
sia pure laicizzato, nel contesto delle relazioni amorose. La divina creatura di cui la fanciulla è
innamorata non corrisponde però al sentimento. La ragione direbbe, in un caso
del genere, di cambiare oggetto: la ragione coglie somiglianze fra le cose, le
ritiene sostituibili. Non così il sentimento, che persegue l’unico. Questa letteratura romantica degli esordi istituisce
palesemente un codice di comportamento e di sensibilità che condiziona la
cultura occidentale per centinaia d’anni, possiamo dire ora. Stiamo assistendo
alla nascita di un mito, uno dei tanti che costellano la storia dell’umanità e
che conoscono anche declinazioni disparate. Il mito dell’amore unico e eterno, il primo amore che non si scorda mai, come
recita la più corriva vulgata, ma anche quello che determina un vincolo
inscindibile da chicchessia: finché morte
non ci separi, recita la formula ecclesiastica con cui l’amore
s’istituzionalizza.
Nel passo, inoltre,
viene accennata e poi sfruttata per arrivare alla conclusione della vicenda
paradigmatica un’associazione destinata a grande fortuna nel periodo romantico,
nel senso di offrire a poeti e romanzieri ispirazione per componimenti e storie:
quella fra sensibilità (o meglio ipersensibilità)
e malattia, mortale oltre tutto, già dalla sua prima e violenta manifestazione.
Di ipersensibilità si muore, sostiene
Werther agli albori del movimento romantico, perché l’ipersensibilità alimenta
un paradosso: nel suo modo di manifestarsi come desiderio forsennato e univoco,
rivolto a un unico soggetto, nella sua tensione vitalistica estrema, corre in
direzione dell’autoannientamento, esplode di vita in eccesso, e muore di sé.
Quasi una sconvenienza, da parte sua, agli occhi di uno spirito razionale:
Albert in effetti non comprende proprio quale analogia il suo impetuoso
interlocutore intenda suggerire. Il nesso fra sovraccarico sentimentale e
malattia mortale gli sfugge, perché non tollera che sia messa totalmente da
parte la facoltà raziocinante per ammettere che gli esseri umani possano
voler essere (per quanto acculturati siano) un tutt’uno con la natura e con i
suoi richiami possenti. Il tema è scabroso, nel senso che si capisce quanto
possa facilmente mutarsi in un richiamo alla liberazione da tutti i freni che
la società e la cultura impongono. Il romanzo goethiano, sotto questo profilo,
ha in sé i germi della rivolta antiborghese dei poeti maledetti francesi, degli
scapigliati italiani, contiene gli umori oscuri dei russi schiacciati dal greve
peso dello zarismo, e chissà che altro ci si riesce a trovare se ci si
abbandona al gioco degli echi e dei presagi di sensibilità che hanno anche
molto di universale e si collocano di là dai confini temporali. In questo come
in altri dialoghi con Albert, Werther approda alla desolante constatazione che
fra esseri umani la comprensione vera sia
difficile. Il suo autore, Goethe, scoprirà ad anni di distanza, in un
romanzo del 1809, che le affinità
elettive, che danno il titolo a quest’opera della maturità, esistono a
dispetto di certe insormontabili incomprensioni, e conducono a intendersi
veramente spiriti che legano fra loro come elementi chimici.
L'occasione genera le
relazioni, così come fa ladro l'uomo. E quando parliamo di questi corpi
naturali, mi pare che la scelta stia tutta nelle mani del chimico, che li
combina. Ma una volta che sono insieme, be', Dio li benedica! Nel caso in
questione mi dispiace soltanto che quel povero acido aeriforme debba tornare ad
arrabattarsi per l'infinito.» «Non dipende che da lui,» rispose il capitano,
«di combinarsi con l'acqua, di servire, come fonte minerale, al ristoro di
ammalati e di sani.»
Nella,
pur sempre tragica, vicenda raccontata nelle Affinità elettive, conta
nuovamente l’analogia tra esseri umani e dimensione naturale, non
culturale, della vita: occorre sapere
cosa si è, come un sale destinato a sciogliersi nell’acqua e non in altro
liquido, per riuscire a trovare la soluzione destinata. L’affinità elettiva,
inerente a una chimica dell’anima, a questo conduce e in questo trova il suo
senso. Nel discorso inconcludente e non concluso, per disperazione, fra Werther
e Albert che abbiamo appena letto s’accenna a quello che Goethe maturo rivela
attraverso gli scambi di idee tra i personaggi delle Affinità elettive.
Tale relazione sarà diversa a seconda
della diversità degli esseri – continuò Edoardo con prontezza – Si
incontreranno subito, come amici, quelli che legano in fretta, che si uniscono
senza modificarsi a vicenda, come il vino che si mescola con l’acqua. Altri
invece, pur trovandosi vicini, continueranno a restare estranei e non ci sarà
verso di legarli, nemmeno mescolandoli o strofinandoli con mezzi meccanici: si
pensi all’olio e all’acqua che, appena si smette di sbatterli, si separano di
nuovo».
«Tutte quelle sostanze – spiegò il
Capitano – che incontrandosi immediatamente si compenetrano e si influenzano a
vicenda le chiamiamo “affini”».
«Devo confessare – disse la bella Carlotta
– che quando lei chiama “affini” le sue sostanze io me le immagino legate non
tanto da un’affinità di sangue quanto piuttosto da una di spirito o di anima.
Ed è in questo stesso modo che possono nascere tra le persone delle amicizie
importanti: sono infatti le qualità opposte che rendono possibile un’unione più
stretta».
FOSCOLO
Come si determini il
fato di un essere umano è di sicuro uno dei rovelli del pensiero, e quanto
abbia nutrito di sé le letterature vi è chiaro da quando ne abbiamo inaugurato
lo studio. In certi casi la scrittura del fato sembra provvista però di una sua
eloquenza, ed è ciò che si può ravvisare nel caso di Foscolo, a partire dalla
nascita a Zante, nel 1778. Zante, Zacinto,
è un’isola della Grecia che, per iniziare subito a usare la penna del
poeta in un suo celebre sonetto[4], con
le sue acque fatali cantate da
Omero diede i natali alla sorridente vergine
Venere ben prima che a lui. Il
destino di Foscolo, che compone il sonetto al quale mi sono appena riferita nel
1802, è in effetti un po’ delineato da quelle sacre sponde, per quanto vi si sente risuonare d’una storia di
lontananza, d’esilio, di nostalgia, di separazione, che rende fratelli l’antico
Ulisse e lo scrittore al contempo neoclassico e preromantico che iniziamo a
conoscere così, per via d’un misurato e dolente lamento sulla patria perduta,
per sempre. In effetti la perdita, e conseguente nostalgia, di Zacinto è un
evento simbolico importante nella sua vita: vi si lega una grande illusione giovanile, destinata a velocissima estinzione e a
grandi frutti letterari. Si tratta dell’illusione, condivisa latamente in
questo periodo, che Napoleone, l’imperatore,
intendesse davvero portare libertà nei
territori in cui si è momentaneamente estesa la conquista francese. Il
triplice motto, ingannevole nella sua essenza, della rivoluzione francese aveva
infatti infiammato un certo numero di spiriti, e Foscolo scrive a celebrazione
di tale sentimento un’ode A Bonaparte
liberatore nel 1797, cui si
accompagna, nello stesso anno, la
rappresentazione di Tieste, tragedia
di spiriti alfieriani, veementemente anti tirannici. Nello stesso anno però
sopraggiunge la delusione, prodotta dal trattato di Campoformio, dalla cui
formulazione si evinceva quanto Napoleone fosse nella sostanza identico ai
sovrani dell’ancien régime. Sempre meno giacobino, Foscolo conduce
comunque un’intensa attività politica, militare, letteraria e amorosa: elencando un po’ alla
rinfusa, frequenta Parini e vari poeti neoclassici, tra cui Vincenzo Monti,
combatte contro gli Austro-Russi, partecipa alla difesa di Genova assediata,
dove viene ferito (1800), dal 1804 al
1806 è in Francia, scontento e
amareggiato, come ufficiale della divisione italiana che avrebbe dovuto
partecipare all'invasione dell'Inghilterra progettata da Napoleone. Alla vita
sentimentale occorre senz’altro un elenco a parte: s'innamora via via, in
questi e negli anni successivi, di Teresa Pikler, moglie di Vincenzo Monti, di
Isabella Roncioni, Antonietta Fagnani Arese (l'amica risanata di una celebre ode), l'inglese Fanny Emerytt (dalla
quale ha una figlia, Floriana), Marzia Martinengo, Maddalena Bignami, Quirina
Mocenni Magiotti (la donna gentile,
di dantesca memoria), che lo conforta e soccorre durante l’esilio.
Quest’ultimo, nella forma di esilio
volontario ha inizio nel 1813, ed è la conseguenza del suo rifiuto di
giurare fedeltà, in veste di ufficiale, agli Austriaci, riappropriatisi del
potere dopo la parentesi napoleonica. Dopo un breve periodo in Svizzera, passa a Londra, dove per
qualche anno ottiene grandi guadagni per i suoi lavori letterarî e riesce a condurre
una vita agiata; ritrova anche la figlia naturale Floriana, con cui vive fino
alla morte. Il periodo londinese è caratterizzato da un intenso attivismo: si
dedica al poemetto mitologico e neoclassico Le
Grazie, alla traduzione dell'Iliade,
ma soprattutto a saggi di carattere
storico-filologico-critico, tra cui lo scritto Della servitù d'Italia, e i
saggi critici su Tasso, Boccaccio, Petrarca, Dante. Il poeta si spegne,
assistito da pochi amici, nel 1827 a Turnham Green nei pressi di Londra, e
viene seppellito nel cimitero di Chiswick, da cui nel 1871 le ceneri sono trasportate nella
chiesa di S. Croce a Firenze.
Già dalla biografia è
possibile evincere che Foscolo sia un poeta di
transizione fra neoclassicismo e romanticismo: alla prima della due
ispirazioni si possono con certezza far risalire le odi A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All'amica risanata, e il poemetto, rimasto incompiuto, Le Grazie; alla seconda le
Ultime lettere di Jacopo Ortis, i
dodici sonetti, il carme Dei Sepolcri.
Sarebbe tuttavia riduttivo ricondurre uno scrittore così poliedrico e prolifico
a queste due sole direttrici. Ne cito pertanto solo una terza, che si manifesta
in un’opera di traduzione dall’inglese alla quale Foscolo si dedica nel periodo
londinese: si tratta del Sentimental
Journey di Sterne, che il poeta presenta preceduto da una Notizia intorno a Didimo Chierico¸ ovvero
il nom de plume con cui firma la
traduzione medesima, che gli offre il destro di creare un suo alter ego, potrebbe essere (alcuni critici
lo hanno suggerito) una sorta di Jacopo
Ortis sopravvissuto al suicidio, o meglio, che non si è suicidato ed è approdato a un sano
disincanto. Le opere sulle quali concentro l’attenzione per definire
attraverso riferimenti testuali lo stile di Foscolo, sintesi di classicismo e
proto romanticismo, sono i Sepolcri e il
romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis.
Il primo è un carme, in endecasillabi sciolti, come
vuole la definizione data da Foscolo, ma
è anche, a tutti gli effetti, un’epistola
poetica rivolta all’amico Ippolito Pindemonte, a seguito di una discussione
avuta con lui a Venezia nell’aprile 1806 in merito all’editto di Saint-Cloud,
promulgato da Napoleone nel 1804. Tra i dettami previsti dall’imperatore,
quello di collocare le sepolture fuori dalle città e di renderle il più
possibile uguali, con l’eccezione di qualche personaggio particolarmente
meritevole di onore, sulla cui tomba, per scelta di una commissione, si
sarebbe potuto incidere un epitaffio. La discussione aveva visto Pindemonte
intento a sostenere l’importanza della sepoltura individuale, in nome della sua
visione cristiana, e Foscolo, in onore di tesi materialiste, negarla. Il Carme, dopo l’incipit materialista, recupera invece il valore e il senso delle
sepolture, celebrandole come una delle possibilità (insieme alla poesia)
concesse all’uomo per sconfiggere, sia pur provvisoriamente, il tempo, che
cancella qualsiasi traccia umana. Si può anche riconoscere, nel percorso
che la poesia per così dire
argomentativa di Foscolo traccia nel carme, una sorta di superamento di una
visione nichilista che impronta invece il finale delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, dove, vedremo fra breve, si rappresenta un totale naufragio
esistenziale. Probabilmente le due visioni riuscivano a essere compresenti
nello spirito di Foscolo, che da entrambe ricavava alimenti per la riflessione
e la poesia. Poesia che riflette e riflessioni che diventano poesia riesce a essere il Carme di cui ci stiamo occupando, nel quale confluiscono visioni filosofiche,
religiose, conoscenze di storia della civiltà, della cultura, della
letteratura, ma soprattutto un modo di sentire e di intendere la morte, di
sentire e intendere il sepolcro e, infine, di sentire e intendere il valore
della vita. Per agevolare il commento, riporto qualche selezione di versi.
All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove più il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d’erbe famiglia e d’animali, 5
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l’ore future,
nè da te, dolce amico, udrò più il verso
e la mesta armonia che lo governa,
nè più nel cor mi parlerà lo spirto 10
delle vergini Muse e dell’Amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte? 15
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
tutte cose l’obblio nella sua notte;
e una forza
operosa le affatica
di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe 20
e l’estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo a sè il mortale
invidierà l’illusion che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite? 25
Non vive ei forse anche sotterra, quando
Gli sarà muta l’armonia del giorno,
Se può destarla con soavi cure
Nella mente de’ suoi? Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi, 30
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo 35
porgendo, sacre le reliquie renda
dall’insultar de’ nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
E di fiori adorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli. 40
Sol chi non lascia eredità d’affetti
Poca gioia ha dell’urna; e se pur mira
dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
fra ’l compianto de’ templi Acherontei,
o ricovrarsi sotto le grandi ale 45
del perdono d’lddio: ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove nè donna innamorata preghi,
nè passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura. 50
Nichilismo, per
cominciare. Una domanda retorica che si itera più volte (All’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il
sonno della morte men duro? Ove più il sole per me alla terra non fecondi
questa bella d’erbe famiglia e d’animali, e quando vaghe di lusinghe innanzi a
me non danzeran l’ore future, né da te, dolce amico, udrò più il verso e la
mesta armonia che lo governa, né più nel cor mi parlerà lo spirto delle vergini
Muse e dell’amore, unico spirto a mia vita raminga, qual fia ristoro a’ dì
perduti un sasso che distingua le mie dalle infinite ossa che in terra e in mar
semina morte? VV. 1-15). Una domanda che, in quanto retorica, conosce
la sua risposta: di fronte alla morte, che spegne gli sguardi e semina
oscurità nei cuori, che consolazione può offrire una tomba, qui evocata
attraverso un termine volutamente scabro, essenziale, che precipita a chiudere
per sempre qualcosa (la vita), il termine brutale sasso, inutilmente predisposto a distinguere ciò che non ha più
senso distinguere, un corpo destinato a disfarsi nella terra, a confondere i
propri atomi con quelli del tutto. Materialismo, Democrito e Epicuro, dominano anche i versi successivi, dove una forza operosa è evocata nel suo perpetuo
muoversi per dare luogo a ciò che esiste, cambiando continuamente forma e
passando dalla vita alla morte, per poi ancora vivere e poi morire. Tutto
passa, tutto si trasforma, e il tempo rende irriconoscibili le cose, travestendole (v. 22). A questo inizio
fa però subito seguito, al verso 23, un’avversativa, che introduce una nuova, opposta
nel significato alla precedente, domanda retorica: perché privarsi di una bella illusione? Di quell’illusione che
reca conforto quando ci si trova sulle soglie della morte: la sopravvivenza, in
qualche modo, in qualsiasi modo. Si continua a vivere, suggerisce il poeta,
anche quando è ormai muta l’armonia del
giorno, se si viene ricordati, se i cari
si prendono cura del luogo di sepoltura. Soavi cure¸ corrispondenza d’amorosi sensi concorrono a rendere
vivo l’amico estinto¸ grazie anche solo a un sasso (riprende il termine al v. 38 connotandolo in modo opposto a
prima), capace di distinguere e consolare. Nel seguito del carme[5]
Foscolo prende posizione contro la nuova legge, l’editto di Saint-Cloud
naturalmente, che in nome dell’egualitarismo rende le tombe una sorta di
territorio indistinto e comune, e avvia una suggestiva concatenazione di
immagini dedicate a sepolture in stato d’abbandono o praticate da animali
selvaggi (di gusto preromantico, vv. 78 e sgg.). Dal verso 91 Dal dì che nozze, tribunali ed are
prende invece l’avvio la celebrazione della funzione civile dei sepolcri, la
cui introduzione nella vita umana è coincisa con un avanzamento della civiltà:
Foscolo esprime la sua predilezione per la concezione della morte pagana,
mentre evidentemente rifugge la visione cristiana (vv. 104 e sgg. riti
cristiani, vv. 114 e sgg pagani, gli scheletri
contrapposti ai puri effluvii). La
sezione dei Sepolcri che comprende i
vv. 151- 195 è dedicata alle tombe di Santa Croce, Machiavelli, Michelangelo, Galileo, e riporta
alla memoria anche Dante, Petrarca e Alfieri: dalle tombe spirano idee che
possono ispirare ingegni nel futuro, nei tempi a venire. Al verso 196, con un
volo pindarico, si passa da Santa Croce ai Greci che combattono contro i
Persiani a Maratona, il tessuto poetico si infittisce di immagini, il poeta
evoca anche se stesso esule (v. 226),
mentre valica distanze temporali vedendo compiersi battaglie di là dal tempo
(quelle compiute dai Greci celebrati da Omero), chiudendo infine il cerchio
della celebrazione dei sepolcri con un’evocazione dei grandi miti originari, la
cui straordinaria permanenza nel tempo, di là dai millenni, dimostra che l’uomo
è in grado di procurarsi una specie di eternità, dalla quale traggono beneficio
i vinti della Storia: gli ultimi versi infatti cantano l’eroe troiano
sconfitto, Ettore, destinato a sopravvivere anche lui fino a che il Sole risplenderà su le sciagure umane.
Le ultime lettere di Jacopo Ortis hanno una complicata storia editoriale, ma la
prima edizione riconosciuta e accreditata dall’autore risale al 1816, pubblicata in Svizzera, poi a
Londra l’anno dopo con poche modifiche. Il protagonista di questo romanzo
epistolare con cui s’inaugura la stagione dei romanzi italiani è un alter ego di
Foscolo, Jacopo Ortis, giovane veneziano, patriota con ideali giacobini,
costretto a lasciare la città dopo il tradimento
napoleonico: il trattato di Campoformio che nell’ottobre del 1798 cede la
città e i suoi territori all’Austria. Jacopo, per sfuggire alle persecuzioni,
si ritira in una proprietà di campagna sui colli Euganei, dove entra in relazione
con la famiglia T., innamorandosi della giovane Teresa, promessa sposa dal
padre, contro la volontà materna, al marchese Odoardo, un ricco possidente
dedito agli affari e, per quanto pare a Jacopo,
poco interessato all’amore. Teresa ricambia il sentimento del
protagonista, ma non riesce a opporsi alla volontà del padre.
Ma, e perché, le diss'io, perché mai non è
qui vostra madre? - Da più settimane vive in Padova con sua sorella; vive
divisa da noi e forse per sempre! Mio padre l'amava: ma da ch'ei s'è pur
ostinato a volermi dare un marito ch'io non posso amare, la concordia è sparita
dalla nostra famiglia. La povera madre mia dopo d'avere contraddetto invano a
questo matrimonio, s'è allontanata per non aver parte alla mia necessaria
infelicità. Io intanto sono abbandonata da tutti! ho promesso a mio padre, e
non voglio disubbidirlo - ma e mi duole ancor più, che per mia cagione la
nostra famiglia sia così disunita (lettera del 20 novembre)
Quando
il padre si rende conto del sentimento che unisce i due giovani, si reca da
Jacopo, caduto ammalato, per persuaderlo a allontanarsi da sua figlia. Jacopo,
per non rendere ancora più penosa la situazione di Teresa, si allontana da lei
senza una spiegazione. La seconda parte del romanzo descrive i continui viaggi
attraverso l’Italia di Jacopo, che visita luoghi ricchi di storia, ripercorre l
tappe della nascita di un sentimento nazionale che affonda le sue radici nel
Classico, riesce persino a esaltarsi ma
non a dimenticare Teresa, il suo vero tormento esistenziale. Così, ritorna alla
fine ai colli Euganei, dove però la situazione è insostenibile per lui: Jacopo
si suicida, colpendosi al petto con un pugnale. Più la sintesi del romanzo
viene scarnificata, più appare evidente l’influenza esercitata su di esso, come
modello, dai Dolori
del giovane Werther. In entrambi i casi gli autori hanno descritto un
dissidio insanabile fra ideale e il
reale, fra giovanili impulsi vitalistici e imposizioni di un ordine costituito
rappresentato sinteticamente dall’autorità paterna, che guida le scelte dei
propri figli, in questo caso delle proprie figlie. Una società patriarcale,
nella quale prevalgono i richiami all’ordine e a un mantenimento del patrimonio
familiare, e i matrimoni sono più dettati da ragioni di convenienza che da
amore. Se poi vogliamo continuare a riconoscere affinità, ad esempio per quanto
concerne la delineazione dei caratteri dei due eroi romantici, è evidente,
a un livello di analisi abbastanza superficiale, che Werther e Jacopo sono
spiriti inquieti e inappagati, in permanente tensione e preda di impulsi,
capaci di soffrire come di gioire in modo estremo. Sotto questo profilo si
manifesta in entrambi uno degli alimenti spirituali del romanticismo che
abbiamo individuato precocemente: quella tentazione costante del limite, da
varcare per via di un desiderio inestinguibile, sehnsucht allo stato puro, che si alimenta di sé in un circolo
vizioso che sembra alla fine rendere impossibile una vita normale e per questo votare alla morte. Il suicidio ovviamente
rende particolarmente fratelli
Werther e Jacopo, ma il gioco delle affinità può terminare qui, dato che molte
differenze separano i due testi, una volta che se ne approfondisca la
conoscenza. Posto che per noi quest’ultima riguarda in modo particolare il
romanzo tedesco, mentre all’italiano dedichiamo solo un passaggio attraverso
alcune citazioni, vi propongo, per concludere,
una selezione di pagine[6]
corredate di mie analisi del testo.
Il sacrificio della patria nostra è
consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci
resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia. Il mio nome è
nella lista di proscrizione, lo so; ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi
m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue
lagrime le ho ubbidito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime
persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia
solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese,
posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo:
quanti sono dunque gli sventurati? E noi, pur troppo, noi stessi Italiani ci
laviamo le mani nel sangue degl’Italiani. Per me segua che può. Poiché ho
disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la
morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra braccia straniere; il mio nome sarà
sommessamente compianto da pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e
le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri.
Così si
esprime Jacopo, rivolgendosi all’amico Lorenzo Alderani, nella prima epistola, datata 11 ottobre 1797 e
scritta dai colli Euganei. Lorenzo Alderani apre il romanzo con
una nota di suo pugno, in cui celebra, in uno stile altisonante, la virtù sconosciuta, che tale resterebbe
ove nessuno si occupasse di celebrarne la memoria. Tema caro a Foscolo, come
sappiamo da quanto scritto a proposito del Carme
dei Sepolcri. Nell’incipit per
mano di Jacopo, si nota la presenza del motivo dominante dell’opera, che la
distingue dal precedente goethiano, ovvero quello politico. Il patriota Ortis,
tale per una scelta originaria e dalle radici antichissime (la patria, è evidente, è tanto il Veneto italiano e non austriaco quanto l’antica
terra dei padri, greca e latina al tempo stesso, nel suo essere un territorio
mitico in cui la geografia conta poco), lamenta una sconfitta che gli appare definitiva, alla quale oppone una
fierezza indomita, un senso della vergogna
da evitare a tutti i costi, identificata con una resa assoluta ai vincitori
e ai traditori. Per ragioni diverse, rispetto a Werther, Jacopo approda però
alla medesima condizione di solitudine totale del suo omologo tedesco, che fin dalle prime lettere si sente un reietto rispetto al contesto sociale, e
acuisce poi questa percezione man mano che gli capita di frequentare ambienti
sia borghesi sia aristocratici (nella prima e poi nella seconda parte del
romanzo), rispetto ai quali la sua diversità,
la sua alterità si manifesta in tutta
evidenza.
L’ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla;
e te ne ringrazio. La trovai seduta, miniando il proprio ritratto. Si rizzò
salutandomi come s’ella mi conoscesse, e ordinò a un servitore che andasse a
cercare di suo padre. Egli non sperava, mi diss’ella, che voi sareste venuto;
sarà per la campagna; nè starà molto a tornare. Una ragazzina le corse fra le
ginocchia dicendole non so che all’orecchio. È l’amico di Lorenzo, le rispose
Teresa, è quello che il babbo andò a trovare l’altr’jeri. Tornò frattanto il
signor T...: m’accoglieva famigliarmente, ringraziandomi ch’io mi fossi
sovvenuto di lui. Teresa intanto, prendendo per mano la sua sorellina, partiva.
Vedete, mi diss’egli, additandomi le sue figliuole che uscivano della stanza;
eccoci tutti. Proferì, parmi, queste parole, come se volesse farmi sentire che
gli mancava sua moglie. Non la nominò. Si ciarlò lunga pezza. Mentr’io stava
per congedarmi, tornò Teresa. Non siamo tanto lontani, mi disse; venite qualche
sera a veglia con noi.
Io tornava a casa col cuore in festa. — Che?
lo spettacolo della bellezza basta forse ad addormentare in noi tristi mortali
tutti i dolori? vedi per me una sorgente di vita; unica certo, e chi sa!
fatale. Ma se io sono predestinato ad avere l’anima perpetuamente in tempesta,
non è tutt’uno?
I passi
sopra proposti, come si può capire, evocano il primo incontro con Teresa, che
potete quindi confrontare col primo incontor fra Werther e Lotte. La
somiglianza è notevole, il modello qui opera fortemente: il quadretto familiare
che induce alla contemplazione, l’accensione immediata degli affetti, la
percezione sempre fulminea di una possibile redenzione
del dolore da parte di quello che qui Jacopo definisce lo spettacolo della bellezza, per poi approdare nuovamente alla
constatazione di una profonda, soggettiva, diversità rispetto a tutti gli altri
e a un destino di tumulto interiore permanente. Come abbiamo letto più volte in
Werther, e ribadito nell’individuare le peculiarità della temperie romantica,
gli spiriti di questo secolo hanno un animo sintonizzato sulle tempeste e gli
impeti, osano guardare negli abissi, da cui sono irresistibilmente attratti,
quanto più appaiono insondabili e paurosi
alla maggioranza delle persone. Evidente anche, componente non trascurabile in
entrambi i personaggi, un certo autocompiacimento, alimentato da una
sensibilità acuta fino all’eccesso, che è già un presagio di morte precoce, se
non autoinflitta, come in effetti accade.
Io sto bene, bene per ora come un infermo che
dorme e non sente i dolori; e mi passano gl’interi giorni in casa del signor
T*** che mi ama come figliuolo: mi lascio illudere, e l’apparente felicità di
quella famiglia mi sembra reale, e mi sembra anche mia. Se nondimeno non vi
fosse quello sposo, perchè davvero — io non odio persona al mondo, ma vi sono
cert’uomini ch’io ho bisogno di vedere soltanto da lontano. — Suo suocero me
n’andava tessendo jer sera un lungo elogio in forma di commendatizia: buono —
esatto — paziente! e niente altro? Possedesse queste doti con angelica
perfezione, s’egli avrà il cuore sempre così morto, e quella faccia magistrale
non animata mai nè dal sorriso dell’allegria, nè dal dolce silenzio della
pietà, sarà per me un di que’ rosaj senza fiori, che mi fanno temere le spine.
Cos’è l’uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice?
scellerato, e scellerato bassamente. — Del resto, Odoardo sa di musica; giuoca
bene a scacchi; mangia, legge, dorme, passeggia, e tutto con l’oriuolo alla
mano; e non parla con enfasi se non per magnificare tuttavia la sua ricca e
scelta biblioteca. Ma quand’egli mi va ripetendo con quella sua voce
cattedratica, ricca e scelta, io sto li lì per dargli una solenne mentita. Se
le umane frenesie che col nome di scienze e di dottrine si sono scritte e
stampate in tutti i secoli, e da tutte le genti, si riducessero a un migliajo
di volumi al più, e’ mi pare che la presunzione de’ mortali non avrebbe da
lagnarsi — e via sempre con queste dissertazioni.
Il
malevolo ritratto del promesso sposo e poi sposo di Teresa è anch’esso
appaiabile agli elementi descrittivi ricavabili dai dialoghi, quasi delle
dispute, tra Albert e Werther. Si tratta della malevolenza che spira dalla
percezione di un’insanabile divergenza fra visioni del mondo: l’una tutta
ideale, l’altra prosaica e materiale. Il vituperio della ragione fredda, calcolatrice e foriera di
scelleratezze è figlia di quel sentimento di superiorità che il temperamento artistico nutre nei confronti del mondo
borghese (o aristocratico, poco importa) che da parte sua considera il primo
tra l’inconcludente, nella visione
più benevola, e il pericoloso (per l’ordine sociale, appunto). Un’intesa, almeno in questa fase aurorale,
sembra proprio impossibile, ma ben presto si delineerà invece una possibilità
di conciliazione, alla quale sia Werther sia Jacopo sarebbero stati fieramente
avversi, dato che si manifesta sotto forma di compromesso: il mondo borghese
fagociterà gli artisti prendendoli per
fame, nel senso che l’allettamento di un riconoscimento materiale del loro
genio determinerà la nascita di un’industria del successo, sirena incantatrice
alla quale è molto difficile resistere. Nel periodo di cui ci stiamo occupando,
però, tutto è ancora appunto in una fase embrionale, e sia Jacopo sia Werther
(meno i loro autori, se esaminate a fondo le biografie corrispettive) possono
permettersi di manifestare uno sprezzo totale nei confronti di un sistema che è modo di vivere e visione del
mondo dal quale sono onorati di
essere estromessi, anche se compresente con questo senso di superiorità è di
sicuro un analogamente virulento vittimismo.
Frattanto ho preso a educare la sorellina di
Teresa: le insegno a leggere e a scrivere. Quand’io sto con lei, la mia
fisonomia si va rasserenando, il mio cuore è più gajo che mai, ed io fo mille
ragazzate. Non so perchè, tutti i fanciulli mi vogliono bene. E quella
ragazzetta è pur cara, bionda e ricciuta, occhi azzurri, guance pari alle rose,
fresca, candida, paffutella, pare una Grazia di quattr’anni. Se tu la vedessi
corrermi incontro, aggrapparmisi alle ginocchia, fuggirmi per ch’io la siegua,
negarmi un bacio e poi improvvisamente attaccarmi que’ suoi labbruzzi alla
bocca! Oggi io mi stava su la cima di un albero a cogliere le frutta: quella
creaturina tendeva le braccia, e balbettando pregavami che per carità non
cascassi.
Anche il
passo precedente può dar adito a interessanti raffronti col testo di Goethe,
nonché documentare un’ambivalenza alla quale ho accennato poco sopra. Jacopo e
Werther disprezzano il modo di vivere borghese e aristocratico, ma al tempo
stesso sono felici di essere ritenuti
parte di una famiglia. Vero è che per tutti e due, il vero motore
dell’attrazione per una vita familiare
è l’amore per una donna impossibile,
ma resta il fatto che i due eroi romantici siano provvisti di una sensibilità
che ci si potrebbe augurare alberghi in chiunque abbia dei figli. La tenerezza
verso la sorellina, in questo passo
in particolare, è tuttavia anche leggibile come un omaggio indiretto sempre
rivolto a Teresa: rientra nell’armamentario del seduttore, come poteva ben
sapere Foscolo, circondare di premure anche gli affetti più cari di chi si
vuole conquistare.
Che bell’autunno! addio Plutarco! sta sempre chiuso sotto
il mio braccio. Sono tre giorni ch’io perdo la mattina a colmare un canestro
d’uva e di pesche, ch’io copro di foglie, avviandomi poi lungo il fiumicello, e
giunto alla villa, desto tutta la famiglia cantando la canzonetta della
vendemmia.
Frattanto io recitava sommessamente con l’anima tutta
amore e armonia la canzone: Chiare, fresche, dolci acque; e l’altra: Di pensier in pensier, di
monte in monte; e il sonetto: Stiamo,
Amore, a veder la gloria nostra; e quanti
altri di que’ sovrumani versi la mia memoria agitata seppe allora suggerire al
mio cuore. Teresa e suo padre se n’erano iti con Odoardo il quale andava a
rivedere i conti al fattore d’una tenuta ch’egli ha in que’ dintorni. Ho poi
saputo ch’e’ sta sulle mosse per Roma, stante la morte di un suo cugino; nè si
sbrigherà così in fretta, perchè essendosi gli altri parenti impadroniti de’
beni del morto, l’affare si ridurrà a’ tribunali.
In questa lettera
Foscolo crea un chiaroscuro avvalendosi di reminiscenze classiche, incarnate in
questo caso da Petrarca: da una parte l’anima di Jacopo abitata dal furor poetico, che si serve dello
strumento della memoria per alimentare le fiamme del cuore;
dall’altra un Odoardo dedito agli affari, che rivede conti e si dispone a
sostenere una causa ereditaria in tribunale.
Umana vita? sogno; ingannevole sogno, al quale noi pur
diam sì gran prezzo, siccome le donnicciuole ripongono la loro ventura nelle
superstizioni e ne’ presagj! Bada: ciò cui tu stendi avidamente la mano è
un’ombra forse, che mentre è a te cara, a tal altro è nojosa. Sta dunque tutta
la mia felicità nella vota apparenza delle cose che ora m’attorniano; e s’io
cerco alcun che di reale, o torno a ingannarmi, o spazio attonito e spaventato
nel nulla! Io non lo so; ma, per me, temo che la natura abbia costituito la
nostra specie quasi minimo anello passivo dell’incomprensibile suo sistema,
dotandone di cotanto amor proprio, perché il sommo timore e la somma speranza
creandoci nella immaginazione una infinita serie di mali e di beni, ci
tenessero pur sempre affannati di questa esistenza breve, dubbia, infelice. E
mentre noi serviamo ciecamente al suo fine, essa ride del nostro orgoglio che
ci fa reputare l’universo creato solo per noi, e noi soli degni e capaci di dar
leggi al creato.
Andava dianzi perdendomi per le campagne, inferrajuolato
sino agli occhi, considerando lo squallore della terra tutta sepolta sotto le
nevi, senza erba nè fronda che mi attestasse le sue passate dovizie. Nè
potevano gli occhi miei lungamente fissarsi su le spalle de’ monti, il vertice
de’ quali era immerso in una negra nube di gelida nebbia che piombava ad
accrescere il lutto dell’aere freddo ed ottenebrato. E parevami vedere quelle
nevi disciogliersi e precipitare a torrenti che innondavano il piano, strascinandosi
impetuosamente piante, armenti, capanne, e sterminando in un giorno le fatiche
di tanti anni e le speranze di tante famiglie. Trapelava di quando in quando un
raggio di sole, il quale, quantunque restasse poi soverchiato dalla caligine,
lasciava pur divedere che sua mercè soltanto il mondo non era dominato da una
perpetua notte profonda. Ed io rivolgendomi a quella parte di cielo che
albeggiando manteneva ancora le tracce del suo splendore: — O Sole, diss’io,
tutto cangia quaggiù! E verrà giorno che Dio ritirerà il suo sguardo da te, e
tu pure sarai trasformato; nè più allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi
cadenti; nè più l’alba inghirlandata di celesti rose verrà cinta di un tuo
raggio su l’oriente ad annunziar che tu sorgi. Godi intanto della tua carriera,
che sarà forse affannosa e simile a questa dell’uomo; tu ’l vedi; l’uomo non
gode de’ suoi giorni; e se talvolta gli è dato di passeggiare per li fiorenti
prati d’aprile, dee pur sempre temere l’infocato aere dell’estate, e il
ghiaccio mortale del verno.
Pagina di prosa
poetica, o di poesia in prosa, non infrequente in questo atipico romanzo. Il
tema è noto, possiamo farlo risalire agli Antichi, cercando fra i frammenti dei
lirici greci[7]:
la vita è sogno, ombra, fugacità permanente, allettamento per taluno, noia per
qualcun altro. Il suo modo di porsi ingannevole nei confronti degli umani
comporta da parte di questi ultimi una sofferenza che certo non tutti
percepiscono con la medesima intensità. Quelli che sperano di più, illusi in
verità, sono destinati a vivere in una condizione permanente d’affanno e di
dolore, mentre la natura, già provvista di connotati che ritroveremo in
Leopardi, si fa beffe delle pretese prerogative umane, continuando
semplicemente il suo corso e perseguendo le sue finalità, peraltro
imperscrutabili agli esseri umani. Nella seconda parte si avverte la medesima
ispirazione, che ho definito materialista, dei Sepolcri. Tutto ciò che esiste è in permanente divenire, tutto è
soggetto a deperimento e morte, nemmeno gli astri si sottraggono a questa
legge, anche se nel caso degli esseri umani, ipotizza il poeta, il piacere è
senz’altro più raro e ridotto del dolore.
T’amai dunque, t’amai, e t’amo ancor di un amore che non
si può concepire che da me solo. È poco prezzo, o mio angelo, la morte per chi
ha potuto udir che tu l’ami, e sentirsi scorrere in tutta l’anima la voluttà
del tuo bacio, e piangere teco — Io sto col piè nella fossa: eppure tu anche in
questo frangente ritorni, come solevi, davanti a questi occhi che morendo si
fissano in te, in te che sacra risplendi di tutta la tua bellezza. E fra poco!
Tutto è apparecchiato: la notte è già troppo avanzata — addio — fra poco saremo
disgiunti dal nulla, o dalla incomprensibile eternità. Nel nulla? Sì — Sì, sì;
poichè sarò senza di te, io prego il sommo Iddio, se non ci riserba alcun luogo
ov’io possa riunirmi teco per sempre, lo prego dalle viscere dell’anima mia, e
in questa tremenda ora della morte, perchè egli m’abbandoni soltanto nel nulla.
Ma io moro incontaminato, e padrone di me stesso, e pieno di te, e certo del
tuo pianto! Perdonami, Teresa, se mai.... — Ah consolati, e vivi per la
felicità de’ nostri miseri genitori; la tua morte farebbe maledire le mie
ceneri.
Che se taluno ardisse incolparti del mio infelice
destino, confondilo con questo mio giuramento solenne ch’io pronunzio
gittandomi nella notte della morte: Teresa è innocente. — Ora tu accogli
l’anima mia.
L’ultima citazione
corrisponde con la fine del romanzo: Jacopo torna sui colli Euganei solo per
rendersi definitivamente conto di come sia per lui impossibile vivere. Non
potrà avere Teresa e questo lo rende morto
per quanto riguarda l’unica esistenza che gli sembra desiderabile. Suicidarsi è
quindi inevitabile, ma un dettaglio non deve sfuggire. Jacopo domanda a Dio una
cosa impossibile da richiedere (una specie di ultimo omaggio intriso di sehnsucht) a un qualsiasi dio esistente: il nulla, se non potrà avere Teresa. Qualcosa
di simile alla richiesta impossibile di Mirra, immaginata da Ovidio, di non essere né viva né morta. Foscolo
poteva anche avere in mente questi versi dell’antico poeta, come pure la
dolentissima ottava che Tasso dedica a Tancredi dopo la morte di Clorinda.
Omaggio all’amore impossibile da realizzare e alla parola che non esiste per
definire come si possa stare al mondo
quando si smetta di desiderare il desiderio, ossia quando venga meno sehnsucht.
[1] La fonte di questa citazione è wikisource, che propone una traduzione del testo del 1875 di Augusto Nomis di Cossilla.
[2] Si tratta di una persona che potrebbe essere realmente vissuta tra la fine del Quattrocento e la fine del Cinquecento in Germania: così sostiene Johan Georg Neuman nel 1640 nella sua Disquisitio storica de Fausto prestigiatore, che stabilisce il ritratto di Faust diventato appunto storico, definendolo come un mago itinerante. A lui certo si ispira, con la Tragical History of Doctor Faustus, il drammaturgo inglese Christopher Marlowe (1564-1593), la cui prima rappresentazione attestata è del 1594, ma che è stata composta nel 1588. Marlowe porta in scena caratteri ed episodi che vengono poi mutuati da Goethe, come la tragicità insita nel personaggio o l’amore per Elena di Troia.
Goethe ha modo di avvicinarsi al Doctor Faustus di Marlowe già in giovane età, durante uno spettacolo di marionette, detto Puppenspiel in tedesco.
[3] Da Simon Mago discende anche il peccato della simonia, la compravendita di cose sacre, che Dante stigmatizza nel XIX canto dell’Inferno, relegandoli nell’VIII cerchio, III bolgia. fra i fraudolenti puniti a testa in giù, con fiamme che bruciano i loro piedi.
[4] Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque
cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
[5] Riporto qui il resto del testo del carme, dal punto in cui ho interrotto la citazione sopra:
Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
Fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti
Contende. E senza tomba giace il tuo
Sacerdote, o Talia, che a te cantando
Nel suo povero tetto educò un lauro 55
Con lungo amore, e t’appendea corone;
E tu gli ornavi del tuo riso i canti
Che il lombardo pungean Sardanapalo,
Cui solo è dolce il muggito de’ buoi
Che dagli antri abduani e dal Ticino 60
Lo fan d’ozi beato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento
Spirar l’ambrosia, indizio del tuo nume,
Fra queste piante ov’io siedo e sospiro
Il mio tetto materno. E tu venivi 65
E sorridevi a lui sotto quel tiglio
Ch’or con dimesse frondi va fremendo
Perchè non copre, o Dea, l’urna del vecchio,
Cui già di calma era cortese e d’ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi 70
Vagolando, ove dorma il sacro capo
Del tuo Parini? A lui non ombre pose
Tra le sue mura la città, lasciva
D’evirati cantori allettatrice,
Non pietra, non parola; e forse l’ossa 75
Col mozzo capo gl’insanguina il ladro
Che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
La derelitta cagna ramingando
Su le fosse e famelica ululando; 80
E uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,
L’ùpupa, e svolazzar su per le croci
Sparse per la funerea campagna,
E l’immonda accusar col luttuoso
Singulto i rai di che son pie le stelle 85
Alle obblîate sepolture. Indarno
Sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
Dalla squallida notte. Ahi! sugli estinti
Non sorge fiore ove non sia d’umane
Lodi onorato e d’amoroso pianto: 90
Dal dì che nozze e tribunali ed are
Dier alle umane belve esser pietose
Di sè stesse e d’altrui, toglieano i vivi
All’etere maligno ed alle fere
I miserandi avanzi che Natura 95
Con veci eterne a’ sensi altri destina.
Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
Ed are a’ figli; e uscìan quindi i responsi
De’ domestici Lari, e fu temuto
Su la polve degli avi il giuramento: 100
Religïon che con diversi riti
Le virtù patrie e la pietà congiunta
Tradussero per lungo ordine d’anni.
Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi
Fean pavimento; nè agl’incensi avvolto
De’ cadaveri il lezzo i supplicanti
Contaminò; nè le città fur meste
D’effigïati scheletri: le madri
Balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono
Nude le braccia su l’amato capo 110
Del lor caro lattante, onde nol desti
Il gemer lungo di persona morta
Chiedente la venal prece agli eredi
Dal santuario. Ma cipressi e cedri
Di puri effluvi i zefiri impregnando 115
Perenne verde protendean su l’urne
Per memoria perenne; e prezïosi
Vasi accogliean le lagrime votive.
Rapìan gli amici una favilla al Sole
A illuminar la sotterranea notte, 120
Perchè gli occhi dell’uom cercan morendo
Il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
Mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
Amaranti educavano e viole 125
Su la funebre zolla; e chi sedea
A libar latte o a raccontar sue pene
Ai cari estinti, una fragranza intorno
Sentia qual d’aura de’ beati Elisi.
Pietosa insania che fa cari gli orti 13
De’ suburbani avelli alle britanne
Vergini, dove le conduce amore
Della perduta madre, ove clementi
Pregaro i Geni del ritorno al prode
Che tronca fe’ la trîonfata nave
Del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d’inclite gesta
E sien ministri al vivere civile
L’opulenza e il tremore, inutil pompa
E inaugurate immagini dell’Orco
Sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
Decoro e mente al bello Italo regno,
Nelle adulate reggie ha sepoltura
Già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
Morte apparecchi riposato albergo,
Ove una volta la fortuna cessi
Dalle vendette, e l’amistà raccolga
Non di tesori eredità, ma caldi
Sensi e di liberal carme l’esempio.
A egregie cose il forte animo accendono
L’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
E santa fanno al peregrin la terra
Che le ricetta. Io quando il monumento
Vidi ove posa il corpo di quel grande
Che, temprando lo scettro a’ regnatori,
Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela
Di che lagrime grondi e di che sangue;
E l’arca di colui che nuovo Olimpo
Alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide
Sotto l’etereo padiglion rotarsi
Più Mondi, e il Sole irradiarli immoto,
Onde all’Anglo che tanta ala vi stese
Sgombrò primo le vie del firmamento:
Te beata, gridai, per le felici
Aure pregne di vita, e pe’ lavacri
Che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell’aer tuo veste la Luna
Di luce limpidissima i tuoi colli
Per vendemmia festanti, e le convalli
Popolate di case e d’oliveti
Mille di fiori al ciel mandano incensi:
E tu prima, Firenze, udivi il carme
Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,
E tu i cari parenti e l’idïoma
Dèsti a quel dolce di Calliope labbro,
Che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
D’un velo candidissimo adornando,
Rendea nel grembo a Venere Celeste;
Ma più beata che in un tempio accolte
Serbi l’Itale glorie, uniche forse
Da che le mal vietate Alpi e l’alterna
Onnipotenza delle umane sorti,
Armi e sostanze t’invadeano, ed are
E patria, e, tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
Intelletti rifulga ed all’Italia,
Quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
Venne spesso Vittorio ad ispirarsi,
Irato a’ patrii Numi; errava muto
Ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
Desîoso mirando; e poi che nullo
Vivente aspetto gli molcea la cura,
Qui posava l’austero; e avea sul volto
Il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno: e l’ossa
Fremono amor di patria. Ah sì! da quella
Religïosa pace un Nume parla:
E nutrìa contro a’ Persi in Maratona
Ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
La virtù greca e l’ira. Il navigante
Che veleggiò quel mar sotto l’Eubea,
Vedea per l’ampia oscurità scintille
Balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
Fumar le pire igneo vapor, corrusche
D’armi ferree vedea larve guerriere
Cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
Silenzi si spandea lungo ne’ campi
Di falangi un tumulto e un suon di tube
E un incalzar di cavalli accorrenti
Scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
E pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
Felice te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l’antenna
Oltre l’isole Egée, d’antichi fatti
Certo udisti suonar dell’Ellesponto
I liti, e la marea mugghiar portando
Alle prode Retèe l’armi d’Achille
Sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi
Giusta di glorie dispensiera è morte:
Nè senno astuto, nè favor di regi
All’Itaco le spoglie ardue serbava,
Chè alla poppa raminga le ritolse
L’onda incitata dagl’inferni Dei.
E me che i tempi ed il desio d’onore
Fan per diversa gente ir fuggitivo,
Me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
Del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
Il tempo con sue fredde ale vi spazza
Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
Di lor canto i deserti, e l’armonia
Vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Tròade inseminata
Eterno splende a’ peregrini un loco
Eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
Onde fur Troja e Assàraco e i cinquanta
Talami e il regno della Giulia gente.
Però che quando Elettra udì la Parca
Che lei dalle vitali aure del giorno
Chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
Mandò il voto supremo: E se diceva,
A te fur care le mie chiome e il viso
E le dolci vigilie, e non mi assente
Premio miglior la volontà de’ fati,
La morta amica almen guarda dal cielo
Onde d’Elettra tua resti la fama.
Così orando moriva. E ne gemea
L’Olimpio; e l’immortal capo accennando
Piovea dai crini ambrosia su la Ninfa
E fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio: e dorme il giusto
Cenere d’Ilo; ivi l’Iliache donne
Sciogliean le chiome, indarno, ahi! deprecando
Da’ lor mariti l’imminente fato;
Ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
Le fea parlar di Troja il dì mortale,
Venne; e all’ombre cantò carme amoroso,
E guidava i nepoti, e l’amoroso
Apprendeva lamento a’ giovinetti.
E dicea sospirando: Oh se mai d’Argo,
Ove al Tidide e di Laerte al figlio
Pascerete i cavalli, a voi permetta
Ritorno il cielo, invan la patria vostra
Cercherete! le mura, opra di Febo,
Sotto le lor reliquie fumeranno;
Ma i Penati di Troja avranno stanza
In queste tombe; chè de’ Numi è dono
Servar nelle miserie altero nome.
E voi palme e cipressi che le nuore
Piantan di Priamo, e crescerete ahi! presto
Di vedovili lagrime innaffiati.
Proteggete i miei padri: e chi la scure
Asterrà pio dalle devote frondi
Men si dorrà di consanguinei lutti
E santamente toccherà l’altare,
Proteggete i miei padri. Un dì vedrete
Mendico un cieco errar sotto le vostre
Antichissime ombre, e brancolando
Penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
E interrogarle. Gemeranno gli antri
Secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
Splendidamente su le mute vie
Per far più bello l’ultimo trofeo
Ai fatati Pelìdi. Il sacro vate,
Placando quelle afflitte alme col canto,
I prenci argivi eternerà per quante
Abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
Ove fia santo e lagrimato il sangue
Per la patria versato, e finchè il Sole
Risplenderà su le sciagure umane.
[6] On line il testo integrale si trova all’indirizzo http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_8/t167.pdf
[7] Ma al pari di un sogno è effimera/la preziosa giovinezza scrive Mimnermo nel VII secolo a. C..
Commenti
Posta un commento