DISPENSA MODULO 1

 GOETHE

Primogenito di Johann Caspar Goethe, giurisperito e consigliere imperiale, e di Katharina Elisabeth Textor, Johann Wolfgang von Goethe nasce a Francoforte sul Meno nel 1749. Riceve dapprima un’educazione familiare, studiando insieme alla sorella di poco più giovane sotto la guida del padre e di qualche maestro privato. Pur avendo sviluppato una vocazione per le lettere e la filosofia, per volontà paterna  si iscrive alla facoltà di diritto di Lipsia nel 1765. Trascorre qualche anno di intensa partecipazione alla vita della città, incorre in qualche problema di salute, ma si riprende, e parte per Strasburgo nel 1775 per proseguire gli studi presso l’università e perfezionare la sua conoscenza del francese. Nel 1771, tornato a Francoforte, ottiene il permesso di esercitare la professione di avvocato, che abbandona dopo circa quattro anni. Nel frattempo si dedica alla scrittura e inizia a seguire la nuova corrente dello Sturm und Drang, che prende il nome dall’omonimo dramma di Friedrich Maximilian Klinger. Consigliato dal padre, si trasferisce nel 1772 nella cittadina di Wetzlar, e si iscrive al tribunale come praticante. In questo periodo conosce la giovane che probabilmente gli ispira il personaggio di Lotte nei Dolori del giovane Werther, così come probabilmente il personaggio di Werther è ispirato a un suo amico, suicida per amore, di quel periodo. Nei primi mesi del 1774 l’ispirazione detta a Goethe I dolori del giovane Werther, il cui impatto sulla società del tempo è immediato: in breve tempo il testo valica i confini della Germania e viene tradotto in tutte le lingue europee, contribuendo così al diffondersi della sensibilità che è possibile approfondire nei suoi connotati salienti solo leggendo e analizzando l’opera. Complicato procedere con un dettagliato resoconto della genesi delle numerosissime opere di Goethe, autore estremamente prolifico, studioso dalle molteplici curiosità, viaggiatore e cultore  di pittura e musica. Scelgo pertanto solo qualche evento e qualche opera che possano poi essere evocate e collegate al momento dell’analisi del primo romanzo.

Goethe viaggiatore, allora, per dare conto di quello che viaggiare significa a quell’epoca, col vantaggio di poter leggere considerazioni dello stesso autore, il quale non manca di redigere  un diario di viaggio, Ricordi del viaggio in Italia 1786-’87, all’inizio dei quali si legge che la partenza avviene come sotto un cogente impulso, una furia quasi, che lo prende,  a fine agosto, poco dopo la festa di compleanno organizzata da suoi amici,  e lo induce a salire, quasi di soppiatto,  su una carrozza diretta a sud, prima tappa la Baviera, poi, l’11 settembre, le prime città d’Italia: Bolzano e  Trento. 

Ho percorsa la città [Trento] la quale è molto antica, ma che però possiede in alcune strade case nuove, di buona costruzione. Nella chiesa havvi un dipinto, il quale rappresenta il concilio ecumenico, intento ad ascoltare un discorso del generale dei gesuiti. Avrei pure voluto sapere quanto avesse detto quegli all’assemblea. La chiesa di quei padri porge bello aspetto, colle sue colonne di marmo rossiccio nella facciata, e l’ingresso è preceduto da una tenda pesante per impedire l’accesso alla polvere; la chiesa stessa poi è chiusa da una cancellata in ferro, la quale consente spingere lo sguardo all’interno. Tutto era silenzioso, tranquillo, imperocchè non si celebrano più in quella chiesa le funzioni del culto, e la porta era aperta, unicamente perchè così si suole praticare in tutte le chiese, all’ora del vespro.

Mentre io stavo esaminando l’architettura, la quale è simile a quella di tutte le chiese dello stesso ordine, entrò un vecchio, togliendosi la berretta nera che aveva in testa. Tutti i suoi abiti neri, vecchi, logori, rivelavano appartenere desso al clero; egli s’inginocchiò davanti alla cancellata, e dopo fatta una breve preghiera, si alzò di nuovo in piedi, e nel girarsi addietro disse a mezza voce, quasi parlando a sè stesso «Ora che hanno cacciati i gesuiti, avrebbero per lo meno dovuto pagare loro quanto ha loro costato la chiesa. Io so pure al pari di tanti altri, quanto abbiano loro costato non solo la chiesa, ma ancora il seminario.» Intanto era ricaduta dietro di lui la tenda che io aveva tenuta alzata, standomene in silenzio; egli si era fermato sull’ultimo gradino in alto, e diceva «Non è l’imperatore che abbia ciò fatto; lo volle il Papa.» E volgendosi verso la strada, senza punto badare a me, disse «Prima gli Spagnuoli; dopo noi; quindi i Francesi. Il sangue di Abele grida vendetta, contro Caino suo fratello» e scendendo la gradinata si avviò per la strada, continuando a parlare per tal guisa, con sè stesso. Probabilmente era tale mantenuto dai gesuiti, il quale, dopo l’immensa rovina dell’ordine sarà impazzato, e che verrà ora ogni giorno nella chiesa deserta, per cercarvi gli antichi abitatori, e dopo una breve preghiera, scagliare maledizioni ai persecutori di quelli.[1]

Tanto per dare un’idea dello spirito di questi appunti di viaggio, riporto ancora due passaggi del testo, uno relativo a Venezia, il secondo a Roma

Era scritto nel libro del destino, alla pagina a me dedicata, che nel 1786 il 28 settembre a sera, e verso le cinque, secondo il nostro modo di contare le ore, sboccando dalla Brenta nella laguna, io potessi vedere Venezia per la prima volta, e poco dopo porre il piede in questa città meravigliosa, formata tutta d’isole, e visitare questa repubblica di castori! La cosa sta propriamente così, e Venezia, grazie a Dio, non è più per me una parola vana, un nome vuoto, il quale mi ha tormentato le tante volte col suo suono fatale! [...] Di Venezia si è di già narrato e scritto oramai tanto, che io non intendo punto farne una descrizione. Narrerò unicamente quanto mi avvenne, le cose le quali mi colpirono. E la prima fu qui ancora il popolo, questa folla immensa, la quale, non spontaneamente, ma per necessità fu condotta a vivere diversamente dagli altri popoli. Non fu per propria elezione che i primi abitatori si stabilirono su queste isole, nè che vennero altri unirsi ai primi; la necessità fu quella la quale li spinse a cercare sicurezza in una località infelice che col tempo seppero rendere felicissima, e che li rese avveduti allorquando tutte le contrade settentrionali trovavansi immerse tuttora nelle tenebre. D’allora in poi, le case sorsero le une a fianco alle altre, le paludi, le sabbie furono rese ferme, e stabili per mezzo delle pietre, e le case cercando aria, nè più nè meno che le piante le quali crescono chiuse in spazio ristretto, cercarono a crescere in altezza, quanto loro faceva difetto in larghezza. Facendo fin da principio la massima economia del terreno, si lasciò alle strade quel tanto di ampiezza appena, che si richiede per separare le file delle case le une dalle altre, e per consentire il passo ad una persona. Nel resto l’acqua servì loro di strade, di piazze, di passeggiate. Il Veneziano pertanto dovette diventare uomo di nuova specie, nella stessa guisa che Venezia sorge città tale, da non potersi paragonare a verun altra. Il canale grande che si svolge a forma di spirale, non ha strada al mondo che lo agguagli; la piazza di S. Marco non ha altro che le si possa porre a confronto. E d’uopo far menzione poi dello spazio acqueo che si stende a forma di mezza luna, al di quà di Venezia propriamente detta. A sinistra si scorge l’isola di S. Giorgio maggiore, alquanto più in là a diritta la Giudecca ed il suo canale; più in là, e sempre a diritta la dogana, e l’ingresso del canal grande, dove sorgono, l’una di fianco all’altra, due chiese grandiose ricche di marmi. Sono questi, accennati con poche parole, i principali oggetti i quali si presentarono al nostro sguardo, allorquando sboccammo fra le due colonne sulla piazza di S. Marco. Tutte queste cose furono disegnate ed incise le tante e le tante volte, che sarà facile a miei amici il rappresentarsele. Dopo cenato mi affrettai di procacciarmi un impressione complessiva della città, e mi lanciai, solo, senza guida, tenendo presenti soltanto le stelle, in quel laberinto della città, la quale tuttochè frastagliata in ogni punto di canali, e canaletti, trovasi però tutta riunita da ponti, e ponticelli. Non è possibile imaginarsi, senza averla vista, la ristrettezza di queste strade, l’aderenza delle case le une alle altre. Generalmente, stendendo le braccia si può misurare la larghezza delle prime, e per talune bastano i gomiti, se si appoggiano le mani ai fianchi; si trovano pure per dir vero strade più ampie, e quà e là piccole piazze, ma in complesso tutto si deve dire angusto, ristretto. Trovai facilmente il canale grande, ed il ponte principale, quello di Rialto, formato di un arco solo in marmo bianco. Dall’alto di quello la vista è stupenda; si vede il canale solcato di barche, le quali recano dalla terra ferma i prodotti occorrenti alla vita, e che per la maggior parte si fermano e sbarcano il loro carico in questo punto, e fra mezzo alle barche poi, una flottiglia di gondole; ed oggi specialmente che era giorno di festa, quella di S. Michele, lo spettacolo, la vista erano meravigliose, se non che, per poterne dare un’idea abbastanza esatta, è d’uopo soggiungere ancora alcuni particolari.Le due parti principali di Venezia, separate dal canal grande, non sono riunite da altro ponte, all’infuori di quello unico di Rialto, però si provvide alle comunicazioni fra l’una e l’altra parte della città, per mezzo di barche pubbliche, le quali attraversano di continuo il canale, in certi punti determinati. Ed oggi, tutta quella folla pulitamente vestita, le donne con un velo nero sul capo, faceva bellissima vista, nell’avviarsi alla chiesa dove si celebrava la festa dell’Arcangelo. Scesi dal ponte, e mi portai in uno di quei punti di passaggio, per osservare con più comodo le persone le quali attraversavano il canale, e viddi colà bellissime figure, e fisionomie. Allorquando mi trovai stanco, presi posto in una gondola, ed abbandonando le stradelle anguste, mi avviai per la parte a settentrione del canal grande, facendomi portare all’isola di S. Chiara, nelle lagune, nel canale della Giudecca, e per ultimo alla piazza di S. Marco, ed allora mi sentii io pure a mia volta compadrone del mare adriatico, al pari di qualunque Veneziano sdraiato nella sua gondola. Mi ricordai allora del mio buon padre, il quale non la finiva tanto facilmente, allorquando prendeva a discorrere di questa città. Non ne farò io oramai altrettanto? Tutte le cose le quali mi circondano sono degne di rispetto, sono opera pregevole delle forze di molte generazioni di uomini; sono monumento stupendo, non già di un principe, ma bensì di un popolo. Ed ora, quantunque la laguna si vadi poco a poco interrando, quantunque sorgano vapori mefitici dalle paludi, tuttochè sia decaduto il commercio, e venuta meno la grande possanza della Repubblica, sono pur sempre meritevoli questa ed i suoi ordinamenti, dell’attenzione di un osservatore. Dessa soggiacque all’influenza del tempo, a cui nessuna cosa sfugge, di quante sono al mondo.

 

A Roma, invece, giunge il primo novembre.

 

Sì,  io sono finalmente arrivato in questa capitale del mondo. Se io l’avessi potuta visitare quindici anni sono, in buona Compagnia, e sotto la direzione di un uomo intelligente, mi terrei propriamente felice. Ma dovendola visitare da solo, vederla con i miei propri occhi, è meglio che io abbia aspettato più tardi. [...] Mi trovo qui da sette giorni, e mi vado formando mano a mano, un’idea generale di questa città. Girando  continuamente, vo acquistando cognizione della pianta di Roma nuova e di Roma antica; contemplo le rovine,gli edifici, visito ora una villa, ora un altra; mi fermo a lungo davanti alle rarità le più notevoli; cammino su e giù, sempre cogli occhi aperti, guardando ogni cosa, imperocchè soltanto a Roma  è possibile prepararsi a conoscere Roma. Lasciatemi però dire essere ufficio triste ed ingrato, quello di cavar fuori Roma antica dalla Roma moderna; ma è pure forza compierlo, nella speranza di rinvenirvi grande soddisfazione. Trovansi traccie di splendidezza e di distruzione, le quali superano ogni mia imaginazione. Quanto fu rispettato dai barbari, venne manomesso dagli architetti moderni. Quando si considera l’esistenza di questa città, la quale risale a due mille anni ed oltre; quando si pon mente a tutte le vicissitudini, e tutte le trasformazioni a cui andò soggetta nel corso dei secoli, e che si pensa sorgere pure dessa sempre sullo stesso suolo, sugli stessi colli; che si scorgono ancora le stesse colonne, gli stessi muri; che nel popolo si riconoscono tuttora traccie del carattere antico, si finisce per diventare in certo modo contemporaneo delle varie epoche, delle diverse vicende, per comprendere quanto a primo aspetto pareva oscurissimo, vale a dire, in qual modo una Roma sia succeduta all’altra; e non solo quella moderna all’antica, ma quelle ancora le quali si formarono, e si succedettero, nelle epoche intermedie. Ora io non ho fatto altro che cercare a scoprire i punti tuttora nascosti in parte, alla quale cosa mirabilmente giovano i lavori preparatori fatti fin qui; imperocchè, a partire dal secolo XV ai giorni nostri, valenti artisti ed eruditi  dedicarono a quegli studi tutta intera la loro vita. Buona parte di questo lavoro poi si compie agevolmente, unicamente nel percorrere Roma, per recarsi a visitare le cose le più notevoli; imperocchè negli altri luoghi è d’uopo ricercare queste, e qui, in tanta abbondanza, e cotanto vicine le une alle altre, si offrono quasi spontanee allo sguardo. Sia che si stia fermo, sia che si cammini, si vedono dovunque un quadro, una vista di ogni genere, di ogni specie; palazzi, e rovine, giardini e deserti, strade ampie e strade strette, casipole, stalle, archi di trionfi e colonne, e spesse volte tutte queste cose addossate cotanto le une alle altre, che si potrebbero disegnare sopra uno stesso foglio di carta. Converrebbe avere cento mani, per poter descrivere tutto. A che cosa può servire una penna? Tanto più se si pensa che si resta stanchi, quasi spossati, dal continuo vedere, ed ammirare.

Queste copiose testimonianze di Goethe viaggiatore sono preziose in quanto riassumono egregiamente uno spirito che connota il Settecento come quel crogiuolo nel quale il classicismo si combina con la sensibilità alla quale si darà poi il nome di romanticismo. Non così in opposizione, come l’impostazione in chiave di dibattiti lascia credere, ma viceversa in grado di favorirsi l’un l’altro. L’ammirazione che Goethe riserva alle antichità  romane, documentata nelle ultime righe riportate, si manifesta anche come una sorta di estenuazione: l’antico che risuona ovunque, sotto specie di ruderi e palazzi, di scorci e di vedute, produce un’ammirazione che, facile immaginare, può convertirsi in  annichilimento delle facoltà immaginative. Ma è proprio su questo punto che, invece, s’intravvede la sinergia possibile. Un fenomeno che si manifesta anche nello spirito di Werther o, come vedremo, in quello di Jacopo Ortis. Omero, per il primo, Petrarca, per il secondo, puri elisir di classico, prendono a fermentare nell’anima producendo visioni completamente nuovi, fermenti creativi, che poi si modellano in nuovi stampi che non sono certo più quelli apprezzati dai classicisti delle vecchie generazioni. Eppure sia Goethe sia Foscolo sono capaci di scrivere come gli antichi. Né l’uno né l’altro, però, vogliono farlo, consapevoli come sono, entrambi, del cambiamento epocale in corso, al quale peraltro offrono il proprio consapevole contributo. Il passaggio forse più significativo a questo proposito è quello in cui lo scrittore tedesco, pur pervaso di ammirazione per il passato classico, coglie in esso qualcosa che ai classisti vecchio stile non interessa per nulla: come nel suo seno covi, si nasconda e attenda di manifestarsi, il futuro dell’arte, nonché il futuro della vita. Perché l’ammirazione non si rattrappisca e si muti in rassegnata contemplazione di quello che non sarà mai più (così bello, così perfetto) è essenziale che si manifesti anche questo slancio verso il futuro, in direzione di uno svelamento che non può certo essere frenato nemmeno dalla morte. Seppure entrambi i protagonisti dei primi romanzi romantici si suicidano, negando con questo gesto, almeno in apparenza, il soprassalto vitalistico al quale sto facendo riferimento, tuttavia non viene mai meno, nella dinamica degli eventi dei Dolori  e dell Ultime lettere, la propensione a vivere immersivamente, al punto che passato, presente, futuro si addensano, fanno tutt’uno, con un esito che si situa, questo sì, agli antipodi della sensibilità neoclassica, propensa a fissare in un unico movimento (ossimorico, magari) ciò che l’artista decide di raffigurare e eternare per la posterità.

Un altro Goethe interessante da scoprire,  per avere un’idea abbastanza ampia del suo orizzonte di scrittore prolifico e longevo, è quello che reca un nuovo contributo a un mito anch’esso di origine antica, per quanto non greco-latina: il mito di Faust[2], nell’omonimo dramma, la cui composizione dura letteralmente una vita, dato che l’originario, Urfaust risalirebbe al 1772, mentre l’edizione finale viene completata da Goethe poco prima di morire, e pubblicata postuma, nel 1832. Il personaggio di Faust nasce nel  XVI. secolo: compare in un anonimo  Volksbuch,  pubblicato a Francoforte nel 1587 presso l’editore Spieß. Si tratta di un erudito che stringe un patto con il diavolo per ottenere conoscenza e potere  di là dai limiti posti dall’esercizio delle sole facoltà umane. Dal medioevo all’età moderna, il personaggio inizia a delinearsi,  soprattutto in ambito alchimistico,  con riferimento al biblico Simon Mago[3]  il quale (Atti degli apostoli, 8,924) sarebbe stato solito sbalordire gli abitanti di Samaria con le sue arti magiche. Battezzato dall’apostolo Filippo, non abbandona del tutto le sue pratiche, offrendosi di comprare il diritto di far discendere lo Spirito Santo imponendo le mani. Maledetto da  Pietro, Simon Mago chiede di essere  perdonato. La tradizione vuole che in seguito sia tornato alle sue pratiche magiche e abbia contribuito a promuovere l’eresia gnostica. Particolarmente interessante, e degno di essere approfondito, il tema della connessione fra forza demoniaca e scienza (intesa appunto come scienza magica o alchemica), che rappresenta il demonio come un ente  in grado di dare agli esseri umani delle prerogative (sottratte al divino) che lo rendono potente (quasi onnipotente) ma pagando un prezzo spirituale, un tributo che coincide con la dannazione eterna, ovvero con la perdita di un bene assoluto anche se non sempre precisato nelle sue peculiari caratteristiche. Il tema di partenza è quello della scelta fra bene  e male, ma presto i contorni si sfumano, al punto che nel momento in cui la tematica è colta da Goethe, e resa nella forma del suo dramma tragico, le linee di separazione sono decisamente complesse da stabilire. Mi limito qui a suggerire che quella proposta da Goethe con la vicenda di Faust sia, tra l’altro, la sfida della manipolazione demiurgica della materia, quella che gli alchimisti conducono all’estremo limite della ricerca della pietra filosofale ovvero dell’assoluto, non senza condire la raffigurazione delle forze in gioco (semplificando, le riduco alle due macro categorie, materiali e spirituali) di una permanente tentazione del carnascialesco, lo spirito giocoso che capovolge tutto nel momento più (apparentemente) inopportuno, per lasciare poi inopinatamente aperte di nuovo tutte le possibilità. Un breve cenno alla trama del dramma può consentirmi di suffragare questo limitato suggerimento interpretativo.  Due prologhi precedono l’inizio: il primo, metateatrale, ospita la discussione fra poeta, direttore di scena e attore in merito a cosa si debba privilegiare, se l’arte o il pubblico; il secondo si svolge nelle regioni celesti e propone il punto di partenza della tragedia: la scommessa che  Satana propone a Dio (reminiscenza di quella biblica che coinvolge Giobbe) in merito all’irreprensibilità di un soggetto, Faust medesimo, medico e teologo, che ha sempre obbedito alle leggi divine e che Satana è sicuro di riuscire a sedurre. Dio non accetta la scommessa, ma permette a Satana di tormentare Faust, dal momento che è certo  sia destinato alla salvezza eterna. Faust conduce, all’inizio del dramma, un’esistenza di studio che non lo soddisfa: non riesce infatti a svelare quelli che gli paiono i segreti più profondi della natura, per penetrare i quali si dedica alle arti magiche, con cui  evoca lo spirito elementare della Terra (ovvero Dio che opera attraverso la natura), ma il tentativo si risolve nell’ennesimo, clamoroso insuccesso  e Faust decide di suicidarsi, ma, un attimo prima di bere una pozione avvelenata, ode le campane che annunciano la Pasqua e rinsavisce:  rilegge il Prologo del Vangelo di Giovanni (In principio era il Verbo) e intuisce che la traduzione migliore sarebbe quella che sostituisce atto a verbo; in seguito, capisce che il suo cane è probabilmente posseduto da uno spirito maligno, che  si rivela essere Mefistofele stesso. Faust, che non teme il soprannaturale, cerca di trattenere il diavolo, che invece vorrebbe allontanarsi dalla stanza, ma è bloccato da un pentagramma divino sulla soglia di casa che egli, in quanto creatura demoniaca, non può spezzare. Uscito di casa solo grazie all’aiuto di un topo, Mefistofele torna da Faust e gli propone un patto: fargli conoscere le bellezze del mondo e della vita rispetto all’esistenza di insuccessi e insoddisfazioni sperimentata fino a quel momento dal dotto protagonista. Faust, che dapprima è titubante, accetta solo quando gli viene proposto un patto di sangue, la cui posta è la sua stessa anima. Infatti Mefistofele si propone di esaudire i suoi desideri grazie alla magia: se riuscirà a far sperimentare a Faust un godimento tale da fargli pronunciare la frase Dirò all’attimo: sei così bello, fermati!, avrà l’esclusiva sul suo spirito. Faust, peraltro, non teme l’oltretomba e, anzi, ha la ferma convinzione che nulla potrà più dargli gioia, una volta terminata la vita terrena, quindi accetta di partire con il diavolo alla ricerca dei più grandi piaceri che il mondo ha da offrire. Le successive vicende, avventurose e a tratti fiabesche, conducono fino alla richiesta da parte di Faust di far innamorare  di lui la giovane Margherita, una donna innocente e pia di cui si è invaghito e da cui è stato respinto, benché a questo punto della storia Mefistofele l’abbia reso giovane, bello e nobile. Grazie agli espedienti escogitati da Mefistofele, Faust riesce a sedurre Margherita, ma la  relazione volge presto al tragico e Margherita viene condannata a morte per infanticidio, mentre Mefistofele coinvolge Faust in un sabba infernale (La notte di Valpurga) e, alla fine di questa parte, Margherita in carcere, per avere invocato il perdono di Dio, viene salvata dagli angeli e portata in cielo. La seconda parte è ricchissima di riferimenti alla mitologia classica ed è inizialmente ambientata presso la corte imperiale. L’evento principale è rappresentato dall’innamoramento di Faust per Elena di Troia, evocata dagli Inferi,  seguito da un secondo sabba, durante il quale assistono ad una processione di creature e mostri mitologici. Faust, dopo aver salvato Elena da un sacrificio rituale, ha da lei un figlio, Euforione, che però muore prematuramente come Icaro nell’omonimo mito; Elena si ritira nuovamente negli Inferi con l’anima del figlio, abbandonando Faust. Il protagonista e Mefistofele aiutano poi l’imperatore in una guerra contro un usurpatore e Faust riceve in cambio della vittoria un feudo costiero. Ormai vecchio e stanco, si ritira nel suo nuovo possedimento, da cui fa espellere due anziani (dal nome, evocativo di Ovidio, di Filemone e Bauci) causandone infine la morte.  Il demone dell’Angoscia s’impadronisce dello spirito del protagonista, che rimpiange la sua vita sprecata in vane ricerche e nel commercio con Mefistofele, e che  vuole dedicarsi a un’attività utile per la collettività, bonificando una palude dei suoi possedimenti. Durante i lavori, mentre immagina un’umanità del futuro veramente libera, Faust pronuncia la frase del patto, Dirò all’attimo: sei così bello, fermati!, e Mefistofele pone fine alla sua vita per poter portare via la sua anima, ma  mentre sta per condurlo all’Inferno, giungono degli angeli che, per intercessione di Margherita e in considerazione del fatto che si sia sempre dedicato all’assoluto, lo portano in cielo. Il poema si chiude con la celebrazione dell’eterno femminino,  e dell’Amore come forza creatrice e motrice dell’intero universo.

Potete rendervi conto, da questa sintesi, quale variegata materia sia contenuta in tale testo, che non a caso viene portato a compimento a pochi mesi dalla morte, dopo essere stato iniziato in gioventù. Un contenuto che si può, senza timore di essere approssimativi, non solo rilevare dalla sintesi ma ricondurre subito al romanzo del quale abbiamo intenzione di occuparci prioritariamente, è quella ricerca dell’assoluto alla quale ho fatto più volte riferimento. Il termine stesso, assoluto, è utile da definire almeno provvisoriamente. Assoluto è, per via etimologica, quanto si situa in un territorio libero da ogni legame (ab unito a solvo, ovvero sciolgo da). A parte l’uso grammaticale, nella lingua latina per definire il costrutto sintattico dell’ablativo assoluto ad esempio, il termine viene utilizzato in filosofia e teologia per indicare quanto si situi a un livello trascendente, privo di relazioni con la dimensione finita, che non può in alcun modo condizionarlo, quindi inconoscibile nella sua natura, sovratemporale e infinito. Nel tentativo di cogliere l’assoluto nella dimensione teologica,  il centro di riferimento diviene il soggetto, e implicitamente la realtà assoluta è posta come spirituale, non sostanza ma spirito: Dio è spirito, ma  è concepito come trascendente, essere eterno e perfetto, sostanza o natura infinita. Come si legge in Tommaso d’Aquino, Dio è absolutum secundum quod in se est. Questo modo di rendere l’assoluto sostanza non elude il problema della conoscenza, anzi, lo ripropone negli stessi termini in cui si poneva nell’aristotelismo. Una sostanza inconoscibile nella sua essenza è pertanto, ritornando alla questione della ricerca dell’assoluto, una sfida permanente, che gli alchimisti denominano grande opera, ossia opus magnum alla latina, rendendo empirica, in particolare chimica, la ricerca spirituale. Il nesso con il nostro discorso letterario è rappresentato dal fatto che in tanti soggetti, a cominciare da Werther, scaturiti dall’immaginazione romantica, si manifesta nell’interiorità una condizione di permanente insoddisfazione che, se non conduce all’autodistruzione, dà luogo a un vitalismo in grado di esprimersi a vari livelli dell’esistenza. Di qui, nel romanzo di Werther, la sensibilità acuita nei confronti della natura, dell’arte, dell’amore, e, sul fronte opposto, il disgusto nei confronti della civiltà, dell’artefazione, delle convenzioni di qualsiasi genere. Si predispone, come in un crogiuolo, l’eliminazione di sostanze nocive alla sensibilità che definiamo romantica, la maggior parte delle quali è radicata in tradizioni percepite ormai come usurate, in quanto espressione di una società obsolescente ma ancora rispettata e in possesso di ricchezze e poteri. La contrapposizione, nel romanzo, fra Werther e Albert si gioca anche su questo piano: il primo rappresenta lo spirito ribelle, anticonvenzionale, romantico, mentre il secondo la rispettabile  e rispettata coscienza borghese, che tiene a graduali e controllati cambiamenti, e rifugge ogni tipo di eccesso, stabilendo soglie molto basse per la definizione di quest’ultimo. Riporto, per suffragare questa affermazione, dalla quale potrà poi svilupparsi un’analisi ulteriore, una citazione dal testo. Si tratta di una lettera della prima parte dei Dolori del giovane Werther,  datata 12 agosto, con la quale concludo, la sezione dedicata a Goethe.

 

"Questo non c'entra, replicò Alberto, perché un uomo che è in balìa delle passioni perde ogni forza di ragione, ed è considerato come in preda all'ebbrezza o al delirio". "Oh le persone ragionevoli!, esclamai sorridendo. Passione! Ebbrezza! Delirio! Voi siete così impassibili, così estranei a tutto questo, voi uomini per bene! Rimproverate il bevitore, condannate l'insensato, passate dinanzi a loro come il sacrificatore e ringraziate Dio, come il fariseo, perché non vi ha fatto simili a loro! Più di una volta io sono stato ebbro, le mie passioni non sono lontane dal delirio, e di queste due cose io non mi pento perché ho imparato a capire che tutti gli uomini straordinari che hanno compiuto qualcosa di grande, e che pareva impossibile, sono stati in ogni tempo ritenuti  ebbri o pazzi. Ma anche nella vita comune, è insopportabile sentir dire ogni volta che qualcuno sta per compiere un'azione libera, nobile, inattesa: quell'uomo è ubriaco, è pazzo! Vergognatevi, uomini sobri e savi!" "Ecco le tue solite fantasie, disse Alberto, tu esageri tutto, e in questo caso hai per lo meno il torto di paragonare il suicidio di cui ora è questione, con delle grandi gesta, mentre esso non può esser considerato che come una debolezza, poiché certo è più facile morire che sopportare con fermezza una vita dolorosa". Ero sul punto di interrompere il discorso, perché niente mi mette così fuori dei gangheri come vedere qualcuno armato di insignificanti luoghi comuni mentre io parlo con tutto il cuore. Pure mi contenni, perché molte volte ho sentito addurre quell'argomento e me ne sono indignato: risposi dunque alquanto vivamente: "Tu lo chiami una debolezza? Ti prego, non lasciarti ingannare dall'apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme sotto il giogo di un tiranno se infine, fremendo, spezza le sue catene? Un uomo che nel terrore di vedere la sua casa in preda alle fiamme sente le sue forze centuplicate, e solleva facilmente dei pesi che a mente calma potrebbe appena muovere? e uno che nel calore dell'offesa ne affronta sei, e li vince, tu lo chiami debole? E, mio caro, se lo sforzo costituisce la forza, perché lo sforzo supremo dovrebbe essere il contrario?". Alberto mi guardò e disse: "Non te ne avere a male, ma gli esempi che tu porti non hanno nulla a vedere col nostro discorso". "Può darsi, risposi, già più volte mi hanno detto che il mio modo di ragionare è spesso privo di logica. Vediamo se possiamo in altro modo figurarci quale coraggio deve avere un uomo che si decide a gettare il fardello della vita, che è generalmente gradito, perché solo in quanto noi sentiamo una cosa, possiamo parlarne con giusto criterio. La natura umana, continuai dunque, ha i suoi limiti: essa può sopportare la gioia, la sofferenza, il dolore fino a un certo punto, e soccombe se questo è oltrepassato. Non è questione di stabilire se un uomo è debole o forte, ma di vedere se egli può sopportare la sofferenza che gli è imposta, sia morale che fisica; e a me pare tanto strano dire che un uomo è vile perché si toglie la vita, come troverei assurdo dire che è tale perché muore di febbre maligna". "Che paradosso!" esclamò Alberto. "Non tanto quanto tu pensi, ribattei. Ammetterai che noi chiamiamo mortale una malattia la quale assale la nostra costituzione naturale in modo che le sue forze sono in parte distrutte e in parte sminuite nella loro attività: sicché essa non può in alcun modo aiutarci né riattivare, per mezzo di alcuna risoluzione, il corso della vita. Ebbene, amico mio, applichiamo questo allo spirito. Vedi quante impressioni agiscono sull'uomo nella sua limitata sfera, quante idee penetrano in lui, finché una crescente passione non gli toglie ogni serena forza di pensiero e lo trascina alla sua perdita. Invano l'uomo libero da ogni cura e in possesso della sua ragione lo guarda con pietà, invano cerca di convincerlo con la persuasione. È come un uomo sano che pur stando al letto di un infermo non può infondergli la minima parte delle sue forze". Ma per Alberto queste erano idee troppo generali. Gli raccontai allora di una fanciulla che da poco tempo era stata trovata morta annegata, e ripetei la sua storia. Era una buona giovane creatura, cresciuta nell'angusta cerchia delle occupazioni casalinghe, nel lavoro di tutta la settimana, e che non aveva altra prospettiva ed altro piacere oltre quello di andare a volte la domenica, con le sue compagne, a passeggiare intorno alla città, abbellita da qualche ornamento messo insieme a poco a poco; di ballare forse una volta nelle feste solenni e di chiacchierare qualche ora da una vicina con vivacità ed interesse a proposito di una disputa o di una maldicenza. L'ardore della sua giovinezza le fa provare infine degli intimi desideri accesi dalle lusinghe degli uomini. Le sue antiche gioie le sembrano sempre più insipide, e infine incontra un uomo verso il quale è irresistibilmente spinta da un sentimento sconosciuto e su cui posano tutte le sue speranze; dimentica il mondo intero, non ode, non vede, non sente che lui, non aspira che a lui, l'Unico. E poiché non è corrotta dai vuoti piaceri di un'incostante vanità, il suo desiderio va dritto allo scopo, vuole essere di lui, vuole in un eterno legame raggiungere tutta la felicità che le manca e godere tutte le gioie alle quali aspira. Ripetute promesse, che coronano tutte le sue speranze, ardite carezze che accendono il suo desiderio, dominano tutta la sua anima; lei è in preda a un oscuro sentimento che le fa pregustare ogni gioia, si esalta al massimo grado, stende infine le braccia per cingere l'oggetto dei suoi desideri... e il suo amato la abbandona. Lei si stupisce e, come insensata, le pare di essere davanti a un abisso: tutto è tenebre intorno a lei; non ha nessun avvenire, nessun conforto, nessuna speranza, perché l'ha lasciata colui nel quale si sentiva vivere. Non vede il vasto mondo che si stende davanti a lei, né i molti che potrebbero consolarla della perdita subìta; si sente sola, abbandonata da tutti al mondo, e cieca, oppressa nell'angustia dell'orribile miseria del suo cuore, si precipita per distruggere tutti i suoi tormenti in una morte annientatrice. Vedi, Alberto, è questa la storia di molte persone! e non ti pare proprio lo stesso caso di una malattia? La natura non trova nessuna via d'uscita dal labirinto delle forze turbate e contrarie, e l'uomo deve morire. Guai a colui che potrà dire, vedendo un simile evento: che pazza! se avesse aspettato, se avesse lasciato agire il tempo, la sua disperazione si sarebbe placata, qualche altro si sarebbe trovato per consolarla! Sarebbe lo stesso che dire: quel pazzo, è morto di febbre! se avesse aspettato finché le forze gli fossero ritornate, i succhi vitali purificati, e calmato il tumulto del suo sangue! Egli vivrebbe ancora oggi e tutto sarebbe andato bene!". Alberto, a cui il paragone non pareva appropriato, mosse ancora qualche obiezione; e fra l'altro disse che io avevo parlato di una semplice giovinetta, ma che egli non capiva come si sarebbe potuto scusare un uomo di criterio, di mente non così limitata, e che sa cogliere un maggior numero di rapporti. "Amico mio, esclamai, l'uomo è uomo, e quel poco d'intelligenza che egli può avere serve poco o niente quando arde la passione e l'essere umano è spinto verso i confini della sua forza. Tanto più... Ma ne parleremo un'altra volta" dissi, e presi il cappello... Il mio cuore era gonfio e ci lasciammo senza esserci compresi. Ma del resto in questo mondo è difficile che gli uomini si comprendano.

 

Nel lungo passo riportato si trovano tanti spunti utili a tessere un discorso sul romanticismo che coinvolga questo padre tedesco del movimento così come, fatte salve differenze connesse con il contesto culturale, il padre italiano che riconosceremo  incarnato dal Foscolo dello Jacopo Ortis. Ne tratto uno per cominciare, riassumibile nell’opposizione in sé scolastica, didascalica, tra ragione  e sentimento. Per Albert, il coscienzioso, affidabile, concreto spirito borghese, Werther è pressappoco un malato, un folle. Significativa, a questo proposito, la parabola esistenziale (una scelta priva di logica, per Albert) che Werther racconta per spiegare a Albert quale sia la differenza sostanziale fra i loro due modi di ragionare sulle vicende umane. Una fanciulla vergine (nella definizione è importante naturalmente la verginità dell’anima) prova per la prima volta la passione amorosa. Più che passione (che evoca uno stato di soggezione e porta con sé una millenaria condanna promossa dalle filosofie ma soprattutto dal cristianesimo) si tratta di entusiasmo, di desiderio di slancio vitalistico, complice la natura certo più che la cultura. Appassionata com’è dall’oggetto e soggetto del suo desiderio vi si dedica totalmente, in modo assoluto, e viene poi, all’improvviso, abbandonata. L’assoluto le sfugge, e a lei non resta che la morte. L’assoluto non patisce sostituzioni, non accetta la similarità, è un tutto in se stesso, e sotto questo profilo si capisce il ricorso all’aggettivo divino, sia pure laicizzato, nel contesto delle relazioni amorose. La divina creatura di cui la fanciulla è innamorata non corrisponde però al sentimento. La ragione direbbe, in un caso del genere, di cambiare oggetto: la ragione coglie somiglianze fra le cose, le ritiene sostituibili. Non così il sentimento, che persegue l’unico. Questa letteratura romantica degli esordi istituisce palesemente un codice di comportamento e di sensibilità che condiziona la cultura occidentale per centinaia d’anni, possiamo dire ora. Stiamo assistendo alla nascita di un mito, uno dei tanti che costellano la storia dell’umanità e che conoscono anche declinazioni disparate. Il mito dell’amore unico e eterno, il primo amore che non si scorda mai, come recita la più corriva vulgata, ma anche quello che determina un vincolo inscindibile da chicchessia: finché morte non ci separi, recita la formula ecclesiastica con cui l’amore s’istituzionalizza.

Nel passo, inoltre, viene accennata e poi sfruttata per arrivare alla conclusione della vicenda paradigmatica un’associazione destinata a grande fortuna nel periodo romantico, nel senso di offrire a poeti e romanzieri ispirazione per componimenti e storie: quella fra sensibilità (o meglio ipersensibilità) e malattia, mortale oltre tutto, già dalla sua prima e violenta manifestazione. Di ipersensibilità si muore, sostiene Werther agli albori del movimento romantico, perché l’ipersensibilità alimenta un paradosso: nel suo modo di manifestarsi come desiderio forsennato e univoco, rivolto a un unico soggetto, nella sua tensione vitalistica estrema, corre in direzione dell’autoannientamento, esplode di vita in eccesso, e muore di sé. Quasi una sconvenienza, da parte sua, agli occhi di uno spirito razionale: Albert in effetti non comprende proprio quale analogia il suo impetuoso interlocutore intenda suggerire. Il nesso fra sovraccarico sentimentale e malattia mortale gli sfugge, perché non tollera che sia messa totalmente da parte la facoltà raziocinante per ammettere che gli esseri umani possano voler essere (per quanto acculturati siano) un tutt’uno con la natura e con i suoi richiami possenti. Il tema è scabroso, nel senso che si capisce quanto possa facilmente mutarsi in un richiamo alla liberazione da tutti i freni che la società e la cultura impongono. Il romanzo goethiano, sotto questo profilo, ha in sé i germi della rivolta antiborghese dei poeti maledetti francesi, degli scapigliati italiani, contiene gli umori oscuri dei russi schiacciati dal greve peso dello zarismo, e chissà che altro ci si riesce a trovare se ci si abbandona al gioco degli echi e dei presagi di sensibilità che hanno anche molto di universale e si collocano di là dai confini temporali. In questo come in altri dialoghi con Albert, Werther approda alla desolante constatazione che fra esseri umani la comprensione vera sia difficile. Il suo autore, Goethe, scoprirà ad anni di distanza, in un romanzo del 1809, che le affinità elettive, che danno il titolo a quest’opera della maturità, esistono a dispetto di certe insormontabili incomprensioni, e conducono a intendersi veramente spiriti che legano fra loro come elementi chimici.

L'occasione genera le relazioni, così come fa ladro l'uomo. E quando parliamo di questi corpi naturali, mi pare che la scelta stia tutta nelle mani del chimico, che li combina. Ma una volta che sono insieme, be', Dio li benedica! Nel caso in questione mi dispiace soltanto che quel povero acido aeriforme debba tornare ad arrabattarsi per l'infinito.» «Non dipende che da lui,» rispose il capitano, «di combinarsi con l'acqua, di servire, come fonte minerale, al ristoro di ammalati e di sani.»

Nella, pur sempre tragica, vicenda raccontata nelle Affinità elettive, conta nuovamente l’analogia tra esseri umani e dimensione naturale, non culturale,  della vita: occorre sapere cosa si è, come un sale destinato a sciogliersi nell’acqua e non in altro liquido, per riuscire a trovare la soluzione destinata. L’affinità elettiva, inerente a una chimica dell’anima, a questo conduce e in questo trova il suo senso. Nel discorso inconcludente e non concluso, per disperazione, fra Werther e Albert che abbiamo appena letto s’accenna a quello che Goethe maturo rivela attraverso gli scambi di idee tra i personaggi delle Affinità elettive.

Tale relazione sarà diversa a seconda della diversità degli esseri – continuò Edoardo con prontezza – Si incontreranno subito, come amici, quelli che legano in fretta, che si uniscono senza modificarsi a vicenda, come il vino che si mescola con l’acqua. Altri invece, pur trovandosi vicini, continueranno a restare estranei e non ci sarà verso di legarli, nemmeno mescolandoli o strofinandoli con mezzi meccanici: si pensi all’olio e all’acqua che, appena si smette di sbatterli, si separano di nuovo».

«Tutte quelle sostanze – spiegò il Capitano – che incontrandosi immediatamente si compenetrano e si influenzano a vicenda le chiamiamo “affini”».

«Devo confessare – disse la bella Carlotta – che quando lei chiama “affini” le sue sostanze io me le immagino legate non tanto da un’affinità di sangue quanto piuttosto da una di spirito o di anima. Ed è in questo stesso modo che possono nascere tra le persone delle amicizie importanti: sono infatti le qualità opposte che rendono possibile un’unione più stretta».


FOSCOLO

 

Come si determini il fato di un essere umano è di sicuro uno dei rovelli del pensiero, e quanto abbia nutrito di sé le letterature vi è chiaro da quando ne abbiamo inaugurato lo studio. In certi casi la scrittura del fato sembra provvista però di una sua eloquenza, ed è ciò che si può ravvisare nel caso di Foscolo, a partire dalla nascita a Zante, nel 1778. Zante, Zacinto,  è un’isola della Grecia che, per iniziare subito a usare la penna del poeta in un suo celebre sonetto[4], con le sue  acque fatali cantate da  Omero diede i natali alla sorridente vergine Venere ben prima  che a lui. Il destino di Foscolo, che compone il sonetto al quale mi sono appena riferita nel 1802, è in effetti un po’ delineato da quelle sacre sponde, per quanto vi si sente risuonare d’una storia di lontananza, d’esilio, di nostalgia, di separazione, che rende fratelli l’antico Ulisse e lo scrittore al contempo neoclassico e preromantico che iniziamo a conoscere così, per via d’un misurato e dolente lamento sulla patria perduta, per sempre. In effetti la perdita, e conseguente nostalgia, di Zacinto è un evento simbolico importante nella sua vita: vi si lega una grande illusione giovanile, destinata a velocissima estinzione e a grandi frutti letterari. Si tratta dell’illusione, condivisa latamente in questo periodo, che Napoleone, l’imperatore, intendesse davvero portare libertà nei territori in cui si è momentaneamente estesa la conquista francese. Il triplice motto, ingannevole nella sua essenza, della rivoluzione francese aveva infatti infiammato un certo numero di spiriti, e Foscolo scrive a celebrazione di tale sentimento un’ode A Bonaparte liberatore nel  1797, cui si accompagna, nello stesso anno,  la rappresentazione di Tieste, tragedia di spiriti alfieriani, veementemente anti tirannici. Nello stesso anno però sopraggiunge la delusione, prodotta dal trattato di Campoformio, dalla cui formulazione si evinceva quanto Napoleone fosse nella sostanza identico ai sovrani dell’ancien régime. Sempre meno giacobino, Foscolo conduce comunque un’intensa attività politica, militare,  letteraria e amorosa: elencando un po’ alla rinfusa, frequenta Parini e vari poeti neoclassici,  tra cui Vincenzo Monti, combatte contro gli Austro-Russi, partecipa alla difesa di Genova assediata, dove viene  ferito (1800), dal 1804 al 1806 è in Francia,  scontento e amareggiato, come ufficiale della divisione italiana che avrebbe dovuto partecipare all'invasione dell'Inghilterra progettata da Napoleone. Alla vita sentimentale occorre senz’altro un elenco a parte: s'innamora via via, in questi e negli anni successivi, di Teresa Pikler, moglie di Vincenzo Monti, di Isabella Roncioni, Antonietta Fagnani Arese (l'amica risanata di una celebre ode), l'inglese Fanny Emerytt (dalla quale ha una figlia, Floriana), Marzia Martinengo, Maddalena Bignami, Quirina Mocenni Magiotti (la donna gentile, di dantesca memoria), che lo conforta e soccorre durante l’esilio. Quest’ultimo, nella forma di esilio volontario ha inizio nel 1813, ed è la conseguenza del suo rifiuto di giurare fedeltà, in veste di ufficiale, agli Austriaci, riappropriatisi del potere dopo la parentesi napoleonica. Dopo un breve  periodo in Svizzera, passa a Londra, dove per qualche anno ottiene grandi guadagni per i suoi lavori letterarî e riesce a  condurre una vita agiata; ritrova anche la figlia naturale Floriana, con cui vive fino alla morte. Il periodo londinese è caratterizzato da un intenso attivismo: si dedica al poemetto mitologico e neoclassico Le Grazie, alla traduzione dell'Iliade, ma soprattutto a saggi di carattere  storico-filologico-critico, tra cui lo scritto Della servitù d'Italia, e  i saggi critici su Tasso, Boccaccio, Petrarca, Dante. Il poeta si spegne, assistito da pochi amici, nel 1827 a Turnham Green nei pressi di Londra, e viene seppellito nel cimitero di Chiswick, da cui  nel 1871 le ceneri sono trasportate nella chiesa di S. Croce a Firenze.

Già dalla biografia è possibile evincere che Foscolo sia un poeta di transizione fra neoclassicismo e romanticismo: alla prima della due ispirazioni si possono con certezza far risalire le odi A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All'amica risanata, e il poemetto, rimasto incompiuto, Le Grazie; alla seconda  le Ultime lettere di Jacopo Ortis, i dodici sonetti, il carme Dei Sepolcri. Sarebbe tuttavia riduttivo ricondurre uno scrittore così poliedrico e prolifico a queste due sole direttrici. Ne cito pertanto solo una terza, che si manifesta in un’opera di traduzione dall’inglese alla quale Foscolo si dedica nel periodo londinese: si tratta del Sentimental Journey di Sterne, che il poeta presenta preceduto da una Notizia intorno a Didimo Chierico¸ ovvero il nom de plume con cui firma la traduzione medesima, che gli offre il destro di creare un suo alter ego, potrebbe essere (alcuni critici lo hanno suggerito) una sorta di Jacopo Ortis sopravvissuto al suicidio, o meglio, che non si è suicidato ed è approdato a un  sano disincanto. Le opere sulle quali concentro l’attenzione per definire attraverso riferimenti testuali lo stile di Foscolo, sintesi di classicismo e proto romanticismo, sono i Sepolcri e il  romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis.

Il primo è un carme, in endecasillabi sciolti, come vuole la  definizione data da Foscolo, ma è anche, a tutti gli effetti, un’epistola poetica rivolta all’amico Ippolito Pindemonte, a seguito di una discussione avuta con lui a Venezia nell’aprile 1806 in merito all’editto di Saint-Cloud, promulgato da Napoleone nel 1804. Tra i dettami previsti dall’imperatore, quello di collocare le sepolture fuori dalle città e di renderle il più possibile uguali, con l’eccezione di qualche personaggio particolarmente meritevole di onore, sulla cui tomba, per scelta di una commissione, si sarebbe potuto incidere un epitaffio. La discussione aveva visto Pindemonte intento a sostenere l’importanza della sepoltura individuale, in nome della sua visione cristiana, e Foscolo, in onore di tesi materialiste, negarla. Il Carme, dopo l’incipit materialista, recupera invece il valore e il senso delle sepolture, celebrandole come una delle possibilità (insieme alla poesia) concesse all’uomo per sconfiggere, sia pur provvisoriamente, il tempo, che cancella qualsiasi traccia umana. Si può anche riconoscere, nel percorso che  la poesia per così dire argomentativa di Foscolo traccia nel carme, una sorta di superamento di una visione nichilista che impronta invece il finale delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, dove, vedremo fra breve,  si rappresenta un totale naufragio esistenziale. Probabilmente le due visioni riuscivano a essere compresenti nello spirito di Foscolo, che da entrambe ricavava alimenti per la riflessione e la poesia. Poesia che riflette e riflessioni che diventano poesia  riesce a essere il Carme di cui ci stiamo occupando, nel quale confluiscono visioni filosofiche, religiose, conoscenze di storia della civiltà, della cultura, della letteratura, ma soprattutto un modo di sentire e di intendere la morte, di sentire e intendere il sepolcro e, infine, di sentire e intendere il valore della vita. Per agevolare il commento, riporto qualche selezione di versi.

All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne

confortate di pianto è forse il sonno

della morte men duro? Ove più il Sole

per me alla terra non fecondi questa

bella d’erbe famiglia e d’animali, 5

e quando vaghe di lusinghe innanzi

a me non danzeran l’ore future,

nè da te, dolce amico, udrò più il verso

e la mesta armonia che lo governa,

nè più nel cor mi parlerà lo spirto  10

delle vergini Muse e dell’Amore,

unico spirto a mia vita raminga,

qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso

che distingua le mie dalle infinite

ossa che in terra e in mar semina morte? 15

Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,

ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve

tutte cose l’obblio nella sua notte;

e  una forza operosa le affatica

di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe 20

e l’estreme sembianze e le reliquie

della terra e del ciel traveste il tempo.

Ma perché pria del tempo a sè il mortale

invidierà l’illusion che spento

pur lo sofferma al limitar di Dite?  25

Non vive ei forse anche sotterra, quando

Gli sarà muta l’armonia del giorno,

Se può destarla con soavi cure

Nella mente de’ suoi? Celeste è questa

corrispondenza d’amorosi sensi, 30

celeste dote è negli umani; e spesso

per lei si vive con l’amico estinto

e l’estinto con noi, se pia la terra

che lo raccolse infante e lo nutriva,

nel suo grembo materno ultimo asilo  35

porgendo, sacre le reliquie renda

dall’insultar de’ nembi e dal profano

piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,

E di fiori adorata arbore amica

le ceneri di molli ombre consoli. 40

Sol chi non lascia eredità d’affetti

Poca gioia ha dell’urna; e se pur mira

dopo l’esequie, errar vede il suo spirto

fra ’l compianto de’ templi Acherontei,

o ricovrarsi sotto le grandi ale 45

del perdono d’lddio: ma la sua polve

lascia alle ortiche di deserta gleba

ove nè donna innamorata preghi,

nè passeggier solingo oda il sospiro

che dal tumulo a noi manda Natura. 50

Nichilismo, per cominciare. Una domanda retorica che si itera più volte (All’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro? Ove più il sole per me alla terra non fecondi questa bella d’erbe famiglia e d’animali, e quando vaghe di lusinghe innanzi a me non danzeran l’ore future, né da te, dolce amico, udrò più il verso e la mesta armonia che lo governa, né più nel cor mi parlerà lo spirto delle vergini Muse e dell’amore, unico spirto a mia vita raminga, qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso che distingua le mie dalle infinite ossa che in terra e in mar semina morte? VV. 1-15). Una domanda che, in quanto retorica,  conosce  la sua risposta: di fronte alla morte, che spegne gli sguardi e semina oscurità nei cuori, che consolazione può offrire una tomba, qui evocata attraverso un termine volutamente scabro, essenziale, che precipita a chiudere per sempre qualcosa (la vita), il termine brutale sasso, inutilmente predisposto a distinguere ciò che non ha più senso distinguere, un corpo destinato a disfarsi nella terra, a confondere i propri atomi con quelli del tutto. Materialismo, Democrito e Epicuro,  dominano anche i versi successivi, dove una forza operosa è evocata nel suo perpetuo muoversi per dare luogo a ciò che esiste, cambiando continuamente forma e passando dalla vita alla morte, per poi ancora vivere e poi morire. Tutto passa, tutto si trasforma, e il tempo rende irriconoscibili le cose, travestendole (v. 22). A questo inizio fa però subito seguito, al verso 23, un’avversativa, che introduce una nuova, opposta nel significato alla precedente, domanda retorica: perché privarsi di una bella illusione? Di quell’illusione che reca conforto quando ci si trova sulle soglie della morte: la sopravvivenza, in qualche modo, in qualsiasi modo. Si continua a vivere, suggerisce il poeta, anche quando è ormai muta l’armonia del giorno, se si viene ricordati, se i cari  si prendono cura del luogo di sepoltura. Soavi cure¸ corrispondenza d’amorosi sensi concorrono a rendere vivo l’amico estinto¸ grazie anche solo a un sasso (riprende il termine al v. 38 connotandolo in modo opposto a prima), capace di distinguere e consolare. Nel seguito del carme[5] Foscolo prende posizione contro la nuova legge, l’editto di Saint-Cloud naturalmente, che in nome dell’egualitarismo rende le tombe una sorta di territorio indistinto e comune, e avvia una suggestiva concatenazione di immagini dedicate a sepolture in stato d’abbandono o praticate da animali selvaggi (di gusto preromantico, vv. 78 e sgg.). Dal verso 91 Dal dì che nozze, tribunali ed are prende invece l’avvio la celebrazione della funzione civile dei sepolcri, la cui introduzione nella vita umana è coincisa con un avanzamento della civiltà: Foscolo esprime la sua predilezione per la concezione della morte pagana, mentre evidentemente rifugge la visione cristiana (vv. 104 e sgg. riti cristiani, vv. 114 e sgg pagani, gli scheletri contrapposti ai puri effluvii). La sezione dei Sepolcri che comprende i vv. 151- 195 è dedicata alle tombe di Santa Croce,  Machiavelli, Michelangelo, Galileo, e riporta alla memoria anche Dante, Petrarca e Alfieri: dalle tombe spirano idee che possono ispirare ingegni nel futuro, nei tempi a venire. Al verso 196, con un volo pindarico, si passa da Santa Croce ai Greci che combattono contro i Persiani a Maratona, il tessuto poetico si infittisce di immagini, il poeta evoca anche se stesso  esule (v. 226), mentre valica distanze temporali vedendo compiersi battaglie di là dal tempo (quelle compiute dai Greci celebrati da Omero), chiudendo infine il cerchio della celebrazione dei sepolcri con un’evocazione dei grandi miti originari, la cui straordinaria permanenza nel tempo, di là dai millenni, dimostra che l’uomo è in grado di procurarsi una specie di eternità, dalla quale traggono beneficio i vinti della Storia: gli ultimi versi infatti cantano l’eroe troiano sconfitto, Ettore, destinato a sopravvivere anche lui fino a che il Sole risplenderà su le sciagure umane.

Le ultime lettere di Jacopo Ortis  hanno una complicata storia editoriale, ma la prima edizione riconosciuta e accreditata dall’autore  risale al 1816, pubblicata in Svizzera, poi a Londra l’anno dopo con poche modifiche. Il protagonista di questo romanzo epistolare con cui s’inaugura la stagione dei romanzi italiani è un alter ego di Foscolo, Jacopo Ortis, giovane veneziano, patriota con ideali giacobini, costretto a lasciare la città dopo il tradimento napoleonico: il trattato di Campoformio che nell’ottobre del 1798 cede la città e i suoi territori all’Austria. Jacopo, per sfuggire alle persecuzioni, si ritira in una proprietà di campagna sui colli Euganei, dove entra in relazione con la famiglia T., innamorandosi della giovane Teresa, promessa sposa dal padre, contro la volontà materna, al marchese Odoardo, un ricco possidente dedito agli affari e, per quanto pare a Jacopo,  poco interessato all’amore. Teresa ricambia il sentimento del protagonista, ma non riesce a opporsi alla volontà del padre.

Ma, e perché, le diss'io, perché mai non è qui vostra madre? - Da più settimane vive in Padova con sua sorella; vive divisa da noi e forse per sempre! Mio padre l'amava: ma da ch'ei s'è pur ostinato a volermi dare un marito ch'io non posso amare, la concordia è sparita dalla nostra famiglia. La povera madre mia dopo d'avere contraddetto invano a questo matrimonio, s'è allontanata per non aver parte alla mia necessaria infelicità. Io intanto sono abbandonata da tutti! ho promesso a mio padre, e non voglio disubbidirlo - ma e mi duole ancor più, che per mia cagione la nostra famiglia sia così disunita (lettera del 20 novembre)

Quando il padre si rende conto del sentimento che unisce i due giovani, si reca da Jacopo, caduto ammalato, per persuaderlo a allontanarsi da sua figlia. Jacopo, per non rendere ancora più penosa la situazione di Teresa, si allontana da lei senza una spiegazione. La seconda parte del romanzo descrive i continui viaggi attraverso l’Italia di Jacopo, che visita luoghi ricchi di storia, ripercorre l tappe della nascita di un sentimento nazionale che affonda le sue radici nel Classico, riesce persino a esaltarsi  ma non a dimenticare Teresa, il suo vero tormento esistenziale. Così, ritorna alla fine ai colli Euganei, dove però la situazione è insostenibile per lui: Jacopo si suicida, colpendosi al petto con un pugnale. Più la sintesi del romanzo viene scarnificata, più appare evidente l’influenza esercitata su di esso, come modello,  dai Dolori del giovane Werther. In entrambi i casi gli autori hanno descritto un dissidio insanabile fra  ideale e il reale, fra giovanili impulsi vitalistici e imposizioni di un ordine costituito rappresentato sinteticamente dall’autorità paterna, che guida le scelte dei propri figli, in questo caso delle proprie figlie. Una società patriarcale, nella quale prevalgono i richiami all’ordine e a un mantenimento del patrimonio familiare, e i matrimoni sono più dettati da ragioni di convenienza che da amore. Se poi vogliamo continuare a riconoscere affinità, ad esempio per quanto concerne la delineazione dei caratteri dei due eroi romantici, è  evidente, a un livello di analisi abbastanza superficiale, che Werther e Jacopo sono spiriti inquieti e inappagati, in permanente tensione e preda di impulsi, capaci di soffrire come di gioire in modo estremo. Sotto questo profilo si manifesta in entrambi uno degli alimenti spirituali del romanticismo che abbiamo individuato precocemente: quella tentazione costante del limite, da varcare per via di un desiderio inestinguibile, sehnsucht allo stato puro, che si alimenta di sé in un circolo vizioso che sembra alla fine rendere impossibile una vita normale e per questo votare alla morte. Il suicidio ovviamente rende particolarmente fratelli Werther e Jacopo, ma il gioco delle affinità può terminare qui, dato che molte differenze separano i due testi, una volta che se ne approfondisca la conoscenza. Posto che per noi quest’ultima riguarda in modo particolare il romanzo tedesco, mentre all’italiano dedichiamo solo un passaggio attraverso alcune citazioni, vi propongo, per concludere,  una selezione di pagine[6] corredate di mie analisi del testo.

Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so; ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho ubbidito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo: quanti sono dunque gli sventurati? E noi, pur troppo, noi stessi Italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’Italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri.

Così si esprime Jacopo, rivolgendosi all’amico Lorenzo Alderani, nella  prima epistola, datata 11 ottobre 1797 e scritta   dai colli Euganei. Lorenzo Alderani apre il romanzo con una nota di suo pugno, in cui celebra, in uno stile altisonante, la virtù sconosciuta, che tale resterebbe ove nessuno si occupasse di celebrarne la memoria. Tema caro a Foscolo, come sappiamo da quanto scritto a proposito del Carme dei Sepolcri. Nell’incipit per mano di Jacopo, si nota la presenza del motivo dominante dell’opera, che la distingue dal precedente goethiano, ovvero quello politico. Il patriota Ortis, tale per una scelta originaria e dalle radici antichissime (la patria, è evidente, è tanto il Veneto italiano e non austriaco quanto l’antica terra dei padri, greca e latina al tempo stesso, nel suo essere un territorio mitico in cui la geografia conta poco), lamenta una sconfitta che gli appare definitiva, alla quale oppone una fierezza indomita, un senso della vergogna da evitare a tutti i costi, identificata con una resa assoluta ai vincitori e ai traditori. Per ragioni diverse, rispetto a Werther, Jacopo approda però alla medesima condizione di solitudine totale del suo omologo tedesco, che  fin dalle prime lettere si sente un reietto rispetto al contesto sociale, e acuisce poi questa percezione man mano che gli capita di frequentare ambienti sia borghesi sia aristocratici (nella prima e poi nella seconda parte del romanzo), rispetto ai quali la sua diversità, la sua alterità si manifesta in tutta evidenza. 

L’ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla; e te ne ringrazio. La trovai seduta, miniando il proprio ritratto. Si rizzò salutandomi come s’ella mi conoscesse, e ordinò a un servitore che andasse a cercare di suo padre. Egli non sperava, mi diss’ella, che voi sareste venuto; sarà per la campagna; nè starà molto a tornare. Una ragazzina le corse fra le ginocchia dicendole non so che all’orecchio. È l’amico di Lorenzo, le rispose Teresa, è quello che il babbo andò a trovare l’altr’jeri. Tornò frattanto il signor T...: m’accoglieva famigliarmente, ringraziandomi ch’io mi fossi sovvenuto di lui. Teresa intanto, prendendo per mano la sua sorellina, partiva. Vedete, mi diss’egli, additandomi le sue figliuole che uscivano della stanza; eccoci tutti. Proferì, parmi, queste parole, come se volesse farmi sentire che gli mancava sua moglie. Non la nominò. Si ciarlò lunga pezza. Mentr’io stava per congedarmi, tornò Teresa. Non siamo tanto lontani, mi disse; venite qualche sera a veglia con noi.

Io tornava a casa col cuore in festa. — Che? lo spettacolo della bellezza basta forse ad addormentare in noi tristi mortali tutti i dolori? vedi per me una sorgente di vita; unica certo, e chi sa! fatale. Ma se io sono predestinato ad avere l’anima perpetuamente in tempesta, non è tutt’uno?

I passi sopra proposti, come si può capire, evocano il primo incontro con Teresa, che potete quindi confrontare col primo incontor fra Werther e Lotte. La somiglianza è notevole, il modello qui opera fortemente: il quadretto familiare che induce alla contemplazione, l’accensione immediata degli affetti, la percezione sempre fulminea di una possibile redenzione del dolore da parte di quello che qui Jacopo definisce lo spettacolo della bellezza, per poi approdare nuovamente alla constatazione di una profonda, soggettiva, diversità rispetto a tutti gli altri e a un destino di tumulto interiore permanente. Come abbiamo letto più volte in Werther, e ribadito nell’individuare le peculiarità della temperie romantica, gli spiriti di questo secolo hanno un animo sintonizzato sulle tempeste e gli impeti, osano guardare negli abissi, da cui sono irresistibilmente attratti, quanto più  appaiono insondabili e paurosi alla maggioranza delle persone. Evidente anche, componente non trascurabile in entrambi i personaggi, un certo autocompiacimento, alimentato da una sensibilità acuta fino all’eccesso, che è già un presagio di morte precoce, se non autoinflitta, come in effetti accade. 

Io sto bene, bene per ora come un infermo che dorme e non sente i dolori; e mi passano gl’interi giorni in casa del signor T*** che mi ama come figliuolo: mi lascio illudere, e l’apparente felicità di quella famiglia mi sembra reale, e mi sembra anche mia. Se nondimeno non vi fosse quello sposo, perchè davvero — io non odio persona al mondo, ma vi sono cert’uomini ch’io ho bisogno di vedere soltanto da lontano. — Suo suocero me n’andava tessendo jer sera un lungo elogio in forma di commendatizia: buono — esatto — paziente! e niente altro? Possedesse queste doti con angelica perfezione, s’egli avrà il cuore sempre così morto, e quella faccia magistrale non animata mai nè dal sorriso dell’allegria, nè dal dolce silenzio della pietà, sarà per me un di que’ rosaj senza fiori, che mi fanno temere le spine. Cos’è l’uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice? scellerato, e scellerato bassamente. — Del resto, Odoardo sa di musica; giuoca bene a scacchi; mangia, legge, dorme, passeggia, e tutto con l’oriuolo alla mano; e non parla con enfasi se non per magnificare tuttavia la sua ricca e scelta biblioteca. Ma quand’egli mi va ripetendo con quella sua voce cattedratica, ricca e scelta, io sto li lì per dargli una solenne mentita. Se le umane frenesie che col nome di scienze e di dottrine si sono scritte e stampate in tutti i secoli, e da tutte le genti, si riducessero a un migliajo di volumi al più, e’ mi pare che la presunzione de’ mortali non avrebbe da lagnarsi — e via sempre con queste dissertazioni.

Il malevolo ritratto del promesso sposo e poi sposo di Teresa è anch’esso appaiabile agli elementi descrittivi ricavabili dai dialoghi, quasi delle dispute, tra Albert e Werther. Si tratta della malevolenza che spira dalla percezione di un’insanabile divergenza fra visioni del mondo: l’una tutta ideale, l’altra prosaica e materiale. Il vituperio della ragione fredda, calcolatrice e foriera di scelleratezze è figlia di quel sentimento di superiorità che il temperamento artistico nutre nei confronti del mondo borghese (o aristocratico, poco importa) che da parte sua considera il primo tra l’inconcludente, nella visione più benevola, e  il pericoloso (per l’ordine sociale, appunto).  Un’intesa, almeno in questa fase aurorale, sembra proprio impossibile, ma ben presto si delineerà invece una possibilità di conciliazione, alla quale sia Werther sia Jacopo sarebbero stati fieramente avversi, dato che si manifesta sotto forma di compromesso: il mondo borghese fagociterà gli artisti prendendoli per fame, nel senso che l’allettamento di un riconoscimento materiale del loro genio determinerà la nascita di un’industria del successo, sirena incantatrice alla quale è molto difficile resistere. Nel periodo di cui ci stiamo occupando, però, tutto è ancora appunto in una fase embrionale, e sia Jacopo sia Werther (meno i loro autori, se esaminate a fondo le biografie corrispettive) possono permettersi di manifestare uno sprezzo totale nei confronti di un sistema che è modo di vivere e visione del mondo dal quale sono onorati di essere estromessi, anche se compresente con questo senso di superiorità è di sicuro un analogamente virulento vittimismo.

Frattanto ho preso a educare la sorellina di Teresa: le insegno a leggere e a scrivere. Quand’io sto con lei, la mia fisonomia si va rasserenando, il mio cuore è più gajo che mai, ed io fo mille ragazzate. Non so perchè, tutti i fanciulli mi vogliono bene. E quella ragazzetta è pur cara, bionda e ricciuta, occhi azzurri, guance pari alle rose, fresca, candida, paffutella, pare una Grazia di quattr’anni. Se tu la vedessi corrermi incontro, aggrapparmisi alle ginocchia, fuggirmi per ch’io la siegua, negarmi un bacio e poi improvvisamente attaccarmi que’ suoi labbruzzi alla bocca! Oggi io mi stava su la cima di un albero a cogliere le frutta: quella creaturina tendeva le braccia, e balbettando pregavami che per carità non cascassi.

Anche il passo precedente può dar adito a interessanti raffronti col testo di Goethe, nonché documentare un’ambivalenza alla quale ho accennato poco sopra. Jacopo e Werther disprezzano il modo di vivere borghese e aristocratico, ma al tempo stesso sono felici di essere ritenuti parte di una famiglia. Vero è che per tutti e due, il vero motore dell’attrazione per una vita familiare è l’amore per una donna impossibile, ma resta il fatto che i due eroi romantici siano provvisti di una sensibilità che ci si potrebbe augurare alberghi in chiunque abbia dei figli. La tenerezza verso la sorellina, in questo passo in particolare, è tuttavia anche leggibile come un omaggio indiretto sempre rivolto a Teresa: rientra nell’armamentario del seduttore, come poteva ben sapere Foscolo, circondare di premure anche gli affetti più cari di chi si vuole conquistare.

Che bell’autunno! addio Plutarco! sta sempre chiuso sotto il mio braccio. Sono tre giorni ch’io perdo la mattina a colmare un canestro d’uva e di pesche, ch’io copro di foglie, avviandomi poi lungo il fiumicello, e giunto alla villa, desto tutta la famiglia cantando la canzonetta della vendemmia.

Frattanto io recitava sommessamente con l’anima tutta amore e armonia la canzone: Chiare, fresche, dolci acque; e l’altra: Di pensier in pensier, di monte in monte; e il sonetto: Stiamo, Amore, a veder la gloria nostra; e quanti altri di que’ sovrumani versi la mia memoria agitata seppe allora suggerire al mio cuore. Teresa e suo padre se n’erano iti con Odoardo il quale andava a rivedere i conti al fattore d’una tenuta ch’egli ha in que’ dintorni. Ho poi saputo ch’e’ sta sulle mosse per Roma, stante la morte di un suo cugino; nè si sbrigherà così in fretta, perchè essendosi gli altri parenti impadroniti de’ beni del morto, l’affare si ridurrà a’ tribunali.

 

In questa lettera Foscolo crea un chiaroscuro avvalendosi di reminiscenze classiche, incarnate in questo caso da Petrarca: da una parte l’anima di Jacopo abitata dal furor poetico, che si serve dello strumento della memoria per alimentare le fiamme del cuore; dall’altra un Odoardo dedito agli affari, che rivede conti e si dispone a sostenere una causa ereditaria in tribunale.

 

Umana vita? sogno; ingannevole sogno, al quale noi pur diam sì gran prezzo, siccome le donnicciuole ripongono la loro ventura nelle superstizioni e ne’ presagj! Bada: ciò cui tu stendi avidamente la mano è un’ombra forse, che mentre è a te cara, a tal altro è nojosa. Sta dunque tutta la mia felicità nella vota apparenza delle cose che ora m’attorniano; e s’io cerco alcun che di reale, o torno a ingannarmi, o spazio attonito e spaventato nel nulla! Io non lo so; ma, per me, temo che la natura abbia costituito la nostra specie quasi minimo anello passivo dell’incomprensibile suo sistema, dotandone di cotanto amor proprio, perché il sommo timore e la somma speranza creandoci nella immaginazione una infinita serie di mali e di beni, ci tenessero pur sempre affannati di questa esistenza breve, dubbia, infelice. E mentre noi serviamo ciecamente al suo fine, essa ride del nostro orgoglio che ci fa reputare l’universo creato solo per noi, e noi soli degni e capaci di dar leggi al creato.

Andava dianzi perdendomi per le campagne, inferrajuolato sino agli occhi, considerando lo squallore della terra tutta sepolta sotto le nevi, senza erba nè fronda che mi attestasse le sue passate dovizie. Nè potevano gli occhi miei lungamente fissarsi su le spalle de’ monti, il vertice de’ quali era immerso in una negra nube di gelida nebbia che piombava ad accrescere il lutto dell’aere freddo ed ottenebrato. E parevami vedere quelle nevi disciogliersi e precipitare a torrenti che innondavano il piano, strascinandosi impetuosamente piante, armenti, capanne, e sterminando in un giorno le fatiche di tanti anni e le speranze di tante famiglie. Trapelava di quando in quando un raggio di sole, il quale, quantunque restasse poi soverchiato dalla caligine, lasciava pur divedere che sua mercè soltanto il mondo non era dominato da una perpetua notte profonda. Ed io rivolgendomi a quella parte di cielo che albeggiando manteneva ancora le tracce del suo splendore: — O Sole, diss’io, tutto cangia quaggiù! E verrà giorno che Dio ritirerà il suo sguardo da te, e tu pure sarai trasformato; nè più allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti; nè più l’alba inghirlandata di celesti rose verrà cinta di un tuo raggio su l’oriente ad annunziar che tu sorgi. Godi intanto della tua carriera, che sarà forse affannosa e simile a questa dell’uomo; tu ’l vedi; l’uomo non gode de’ suoi giorni; e se talvolta gli è dato di passeggiare per li fiorenti prati d’aprile, dee pur sempre temere l’infocato aere dell’estate, e il ghiaccio mortale del verno.

 

Pagina di prosa poetica, o di poesia in prosa, non infrequente in questo atipico romanzo. Il tema è noto, possiamo farlo risalire agli Antichi, cercando fra i frammenti dei lirici greci[7]: la vita è sogno, ombra, fugacità permanente, allettamento per taluno, noia per qualcun altro. Il suo modo di porsi ingannevole nei confronti degli umani comporta da parte di questi ultimi una sofferenza che certo non tutti percepiscono con la medesima intensità. Quelli che sperano di più, illusi in verità, sono destinati a vivere in una condizione permanente d’affanno e di dolore, mentre la natura, già provvista di connotati che ritroveremo in Leopardi, si fa beffe delle pretese prerogative umane, continuando semplicemente il suo corso e perseguendo le sue finalità, peraltro imperscrutabili agli esseri umani. Nella seconda parte si avverte la medesima ispirazione, che ho definito materialista, dei Sepolcri. Tutto ciò che esiste è in permanente divenire, tutto è soggetto a deperimento e morte, nemmeno gli astri si sottraggono a questa legge, anche se nel caso degli esseri umani, ipotizza il poeta, il piacere è senz’altro più raro e ridotto del dolore.

 

T’amai dunque, t’amai, e t’amo ancor di un amore che non si può concepire che da me solo. È poco prezzo, o mio angelo, la morte per chi ha potuto udir che tu l’ami, e sentirsi scorrere in tutta l’anima la voluttà del tuo bacio, e piangere teco — Io sto col piè nella fossa: eppure tu anche in questo frangente ritorni, come solevi, davanti a questi occhi che morendo si fissano in te, in te che sacra risplendi di tutta la tua bellezza. E fra poco! Tutto è apparecchiato: la notte è già troppo avanzata — addio — fra poco saremo disgiunti dal nulla, o dalla incomprensibile eternità. Nel nulla? Sì — Sì, sì; poichè sarò senza di te, io prego il sommo Iddio, se non ci riserba alcun luogo ov’io possa riunirmi teco per sempre, lo prego dalle viscere dell’anima mia, e in questa tremenda ora della morte, perchè egli m’abbandoni soltanto nel nulla. Ma io moro incontaminato, e padrone di me stesso, e pieno di te, e certo del tuo pianto! Perdonami, Teresa, se mai.... — Ah consolati, e vivi per la felicità de’ nostri miseri genitori; la tua morte farebbe maledire le mie ceneri.

Che se taluno ardisse incolparti del mio infelice destino, confondilo con questo mio giuramento solenne ch’io pronunzio gittandomi nella notte della morte: Teresa è innocente. — Ora tu accogli l’anima mia.

 

L’ultima citazione corrisponde con la fine del romanzo: Jacopo torna sui colli Euganei solo per rendersi definitivamente conto di come sia per lui impossibile vivere. Non potrà avere Teresa e questo lo rende morto per quanto riguarda l’unica esistenza che gli sembra desiderabile. Suicidarsi è quindi inevitabile, ma un dettaglio non deve sfuggire. Jacopo domanda a Dio una cosa impossibile da richiedere (una specie di ultimo omaggio intriso di sehnsucht) a un qualsiasi dio esistente:  il nulla, se non potrà avere Teresa. Qualcosa di simile alla richiesta impossibile di Mirra, immaginata da Ovidio, di non essere né viva né morta. Foscolo poteva anche avere in mente questi versi dell’antico poeta, come pure la dolentissima ottava che Tasso dedica a Tancredi dopo la morte di Clorinda. Omaggio all’amore impossibile da realizzare e alla parola che non esiste per definire come si possa stare al mondo quando si smetta di desiderare il desiderio, ossia quando venga meno sehnsucht.



[1]  La fonte di questa citazione è wikisource, che propone una traduzione del testo del 1875 di Augusto Nomis di Cossilla.

[2] Si tratta di una  persona che potrebbe essere realmente vissuta tra la fine del Quattrocento e la fine del Cinquecento in Germania: così sostiene Johan Georg Neuman nel 1640 nella sua Disquisitio storica de Fausto prestigiatore, che stabilisce il ritratto di Faust diventato appunto storico, definendolo come un mago itinerante. A lui certo  si ispira, con la  Tragical History of Doctor Faustus,  il drammaturgo inglese Christopher Marlowe (1564-1593), la cui prima rappresentazione attestata è del 1594, ma che è stata composta nel 1588. Marlowe porta in scena caratteri ed episodi che vengono poi mutuati da Goethe, come la tragicità insita nel personaggio o l’amore per Elena di Troia.

Goethe ha modo di avvicinarsi al Doctor Faustus di Marlowe già in giovane età, durante uno spettacolo di marionette, detto Puppenspiel in tedesco.

[3]  Da Simon Mago discende anche il peccato della simonia, la compravendita di cose sacre, che Dante stigmatizza nel XIX canto dell’Inferno, relegandoli nell’VIII cerchio, III bolgia. fra i fraudolenti puniti a testa in giù, con fiamme che bruciano i loro piedi.

[4] Né più mai toccherò le sacre sponde

ove il mio corpo fanciulletto giacque,

Zacinto mia, che te specchi nell'onde

del greco mar da cui vergine nacque

 

Venere, e fea quelle isole feconde

col suo primo sorriso, onde non tacque

le tue limpide nubi e le tue fronde

l'inclito verso di colui che l'acque

 

cantò fatali, ed il diverso esiglio

per cui bello di fama e di sventura

baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

 

Tu non altro che il canto avrai del figlio,

o materna mia terra; a noi prescrisse

il fato illacrimata sepoltura.

[5]  Riporto qui il resto del testo del carme, dal punto in cui ho interrotto la citazione sopra:

Pur nuova legge impone oggi i sepolcri

Fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti

Contende. E senza tomba giace il tuo

Sacerdote, o Talia, che a te cantando

Nel suo povero tetto educò un lauro 55

Con lungo amore, e t’appendea corone;

E tu gli ornavi del tuo riso i canti

Che il lombardo pungean Sardanapalo,

Cui solo è dolce il muggito de’ buoi

Che dagli antri abduani e dal Ticino 60

Lo fan d’ozi beato e di vivande.

O bella Musa, ove sei tu? Non sento

Spirar l’ambrosia, indizio del tuo nume,

Fra queste piante ov’io siedo e sospiro

Il mio tetto materno. E tu venivi 65

E sorridevi a lui sotto quel tiglio

Ch’or con dimesse frondi va fremendo

Perchè non copre, o Dea, l’urna del vecchio,

Cui già di calma era cortese e d’ombre.

Forse tu fra plebei tumuli guardi  70

Vagolando, ove dorma il sacro capo

Del tuo Parini? A lui non ombre pose

Tra le sue mura la città, lasciva

D’evirati cantori allettatrice,

Non pietra, non parola; e forse l’ossa  75

Col mozzo capo gl’insanguina il ladro

Che lasciò sul patibolo i delitti.

Senti raspar fra le macerie e i bronchi

La derelitta cagna ramingando

Su le fosse e famelica ululando;  80

E uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,

L’ùpupa, e svolazzar su per le croci

Sparse per la funerea campagna,

E l’immonda accusar col luttuoso

Singulto i rai di che son pie le stelle  85

Alle obblîate sepolture. Indarno

Sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade

Dalla squallida notte. Ahi! sugli estinti

Non sorge fiore ove non sia d’umane

Lodi onorato e d’amoroso pianto: 90

Dal dì che nozze e tribunali ed are

Dier alle umane belve esser pietose

Di sè stesse e d’altrui, toglieano i vivi

All’etere maligno ed alle fere

I miserandi avanzi che Natura  95

Con veci eterne a’ sensi altri destina.

Testimonianza a’ fasti eran le tombe,

Ed are a’ figli; e uscìan quindi i responsi

De’ domestici Lari, e fu temuto

Su la polve degli avi il giuramento: 100

Religïon che con diversi riti 

Le virtù patrie e la pietà congiunta

Tradussero per lungo ordine d’anni.

Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi

Fean pavimento; nè agl’incensi avvolto

De’ cadaveri il lezzo i supplicanti

Contaminò; nè le città fur meste

D’effigïati scheletri: le madri

Balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono

Nude le braccia su l’amato capo  110

Del lor caro lattante, onde nol desti

Il gemer lungo di persona morta

Chiedente la venal prece agli eredi

Dal santuario. Ma cipressi e cedri

Di puri effluvi i zefiri impregnando  115

Perenne verde protendean su l’urne

Per memoria perenne; e prezïosi

Vasi accogliean le lagrime votive.

Rapìan gli amici una favilla al Sole

A illuminar la sotterranea notte,  120

Perchè gli occhi dell’uom cercan morendo

Il Sole; e tutti l’ultimo sospiro

Mandano i petti alla fuggente luce.

Le fontane versando acque lustrali

Amaranti educavano e viole  125

Su la funebre zolla; e chi sedea

A libar latte o a raccontar sue pene

Ai cari estinti, una fragranza intorno

Sentia qual d’aura de’ beati Elisi.

Pietosa insania che fa cari gli orti   13

De’ suburbani avelli alle britanne

Vergini, dove le conduce amore

Della perduta madre, ove clementi

Pregaro i Geni del ritorno al prode

Che tronca fe’ la trîonfata nave

Del maggior pino, e si scavò la bara.

Ma ove dorme il furor d’inclite gesta

E sien ministri al vivere civile

L’opulenza e il tremore, inutil pompa

E inaugurate immagini dell’Orco

Sorgon cippi e marmorei monumenti.

Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,

Decoro e mente al bello Italo regno,

Nelle adulate reggie ha sepoltura

Già vivo, e i stemmi unica laude. A noi

Morte apparecchi riposato albergo,

Ove una volta la fortuna cessi

Dalle vendette, e l’amistà raccolga

Non di tesori eredità, ma caldi

Sensi e di liberal carme l’esempio.

A egregie cose il forte animo accendono

L’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella

E santa fanno al peregrin la terra

Che le ricetta. Io quando il monumento

Vidi ove posa il corpo di quel grande

Che, temprando lo scettro a’ regnatori,

Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela

Di che lagrime grondi e di che sangue;

E l’arca di colui che nuovo Olimpo

Alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide

Sotto l’etereo padiglion rotarsi

Più Mondi, e il Sole irradiarli immoto,

Onde all’Anglo che tanta ala vi stese

Sgombrò primo le vie del firmamento:

Te beata, gridai, per le felici

Aure pregne di vita, e pe’ lavacri

Che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!

Lieta dell’aer tuo veste la Luna

Di luce limpidissima i tuoi colli

Per vendemmia festanti, e le convalli

Popolate di case e d’oliveti

Mille di fiori al ciel mandano incensi:

E tu prima, Firenze, udivi il carme

Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,

E tu i cari parenti e l’idïoma

Dèsti a quel dolce di Calliope labbro,

Che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma

D’un velo candidissimo adornando,

Rendea nel grembo a Venere Celeste;

Ma più beata che in un tempio accolte

Serbi l’Itale glorie, uniche forse

Da che le mal vietate Alpi e l’alterna

Onnipotenza delle umane sorti,

Armi e sostanze t’invadeano, ed are

E patria, e, tranne la memoria, tutto.

Che ove speme di gloria agli animosi

Intelletti rifulga ed all’Italia,

Quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi

Venne spesso Vittorio ad ispirarsi,

Irato a’ patrii Numi; errava muto

Ove Arno è più deserto, i campi e il cielo

Desîoso mirando; e poi che nullo

Vivente aspetto gli molcea la cura,

Qui posava l’austero; e avea sul volto

Il pallor della morte e la speranza.

Con questi grandi abita eterno: e l’ossa

Fremono amor di patria. Ah sì! da quella

Religïosa pace un Nume parla:

E nutrìa contro a’ Persi in Maratona

Ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,

La virtù greca e l’ira. Il navigante

Che veleggiò quel mar sotto l’Eubea,

Vedea per l’ampia oscurità scintille

Balenar d’elmi e di cozzanti brandi,

Fumar le pire igneo vapor, corrusche

D’armi ferree vedea larve guerriere

Cercar la pugna; e all’orror de’ notturni

Silenzi si spandea lungo ne’ campi

Di falangi un tumulto e un suon di tube

E un incalzar di cavalli accorrenti

Scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,

E pianto, ed inni, e delle Parche il canto.

Felice te che il regno ampio de’ venti,

Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!

E se il piloto ti drizzò l’antenna

Oltre l’isole Egée, d’antichi fatti

Certo udisti suonar dell’Ellesponto

I liti, e la marea mugghiar portando

Alle prode Retèe l’armi d’Achille

Sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi

Giusta di glorie dispensiera è morte:

Nè senno astuto, nè favor di regi

All’Itaco le spoglie ardue serbava,

Chè alla poppa raminga le ritolse

L’onda incitata dagl’inferni Dei.

E me che i tempi ed il desio d’onore

Fan per diversa gente ir fuggitivo,

Me ad evocar gli eroi chiamin le Muse

Del mortale pensiero animatrici.

Siedon custodi de’ sepolcri, e quando

Il tempo con sue fredde ale vi spazza

Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti

Di lor canto i deserti, e l’armonia

Vince di mille secoli il silenzio.

Ed oggi nella Tròade inseminata

Eterno splende a’ peregrini un loco

Eterno per la Ninfa a cui fu sposo

Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,

Onde fur Troja e Assàraco e i cinquanta

Talami e il regno della Giulia gente.

Però che quando Elettra udì la Parca

Che lei dalle vitali aure del giorno

Chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove

Mandò il voto supremo: E se diceva,

A te fur care le mie chiome e il viso

E le dolci vigilie, e non mi assente

Premio miglior la volontà de’ fati,

La morta amica almen guarda dal cielo

Onde d’Elettra tua resti la fama.

Così orando moriva. E ne gemea

L’Olimpio; e l’immortal capo accennando

Piovea dai crini ambrosia su la Ninfa

E fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.

Ivi posò Erittonio: e dorme il giusto

Cenere d’Ilo; ivi l’Iliache donne

Sciogliean le chiome, indarno, ahi! deprecando

Da’ lor mariti l’imminente fato;

Ivi Cassandra, allor che il Nume in petto

Le fea parlar di Troja il dì mortale,

Venne; e all’ombre cantò carme amoroso,

E guidava i nepoti, e l’amoroso

Apprendeva lamento a’ giovinetti.

E dicea sospirando: Oh se mai d’Argo,

Ove al Tidide e di Laerte al figlio

Pascerete i cavalli, a voi permetta

Ritorno il cielo, invan la patria vostra

Cercherete! le mura, opra di Febo,

Sotto le lor reliquie fumeranno;

Ma i Penati di Troja avranno stanza

In queste tombe; chè de’ Numi è dono

Servar nelle miserie altero nome.

E voi palme e cipressi che le nuore

Piantan di Priamo, e crescerete ahi! presto

Di vedovili lagrime innaffiati.

Proteggete i miei padri: e chi la scure

Asterrà pio dalle devote frondi

Men si dorrà di consanguinei lutti

E santamente toccherà l’altare,

Proteggete i miei padri. Un dì vedrete

Mendico un cieco errar sotto le vostre

Antichissime ombre, e brancolando

Penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,

E interrogarle. Gemeranno gli antri

Secreti, e tutta narrerà la tomba

Ilio raso due volte e due risorto

Splendidamente su le mute vie

Per far più bello l’ultimo trofeo

Ai fatati Pelìdi. Il sacro vate,

Placando quelle afflitte alme col canto,

I prenci argivi eternerà per quante

Abbraccia terre il gran padre Oceàno.

E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,

Ove fia santo e lagrimato il sangue

Per la patria versato, e finchè il Sole

Risplenderà su le sciagure umane.

[6]  On line il  testo integrale si trova all’indirizzo http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_8/t167.pdf

 

[7] Ma al pari di un sogno è effimera/la preziosa giovinezza scrive Mimnermo nel VII secolo a. C..

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